Mentre il governo si prepara per gli esami di riparazione a settembre, studiando nuovi “compiti a casa” che avrebbe dovuto per lo meno iniziare a svolgere nove mesi fa, i partiti scaldano i motori per la competizione elettorale del 2013 e le loro strade, confluite temporaneamente nel sostegno a Monti, iniziano a divergere con sempre maggiore evidenza. Con la carta d’intenti di alcuni giorni fa, e con le interviste di ieri di Bersani e Fassina, il Pd si allontana sempre di più dalla cosiddetta “agenda Monti”, mentre con la proposta per l’abbattimento del debito il Pdl si mostra più intento ad integrarla, forse nel tentativo di “agganciarsi” al professore per riguadagnare la credibilità perduta negli anni di governo. Il sogno di Casini, invece, è dar vita ad una sorta di “lista Monti” e di sostituirsi definitivamente al Pdl nel ruolo di rappresentante dei “moderati”.
Al Sole 24 Ore il segretario del Pd ha giurato «lealtà al governo Monti», «lealtà verso il grande obiettivo europeo» e responsabilità sui conti pubblici. Quanto all’“agenda Monti”, cioè a quell’insieme di riforme strutturali in parte avviate in parte da avviare, il discorso è ben diverso. Per Bersani la continuità con Monti sta nel fine – l’Europa e l’euro – non nei mezzi, nelle politiche per raggiungerlo. I patti e gli impegni assunti vanno certamente rispettati, «finché non si cambiano e migliorano». Un modo per dire che il Pd si impegnerebbe innanzitutto per ricontrattare i patti esistenti come il fiscal compact.
Mentre il governo Monti sembra deciso ad imboccare, alla ripresa di settembre, la strada dell’abbattimento del debito e di ulteriori tagli alla spesa pubblica, per il Pd si è già tagliato abbastanza e la priorità è la crescita, da rilanciare attraverso due vie: investimenti pubblici, a livello comunitario e nazionale, cioè ulteriore spesa che ammorbidendo i vincoli europei di bilancio non andrebbe conteggiata nel rapporto deficit/Pil; e redistribuzione, una tassa patrimoniale il cui gettito verrebbe “redistribuito”, in termini di minori imposte, a imprese e lavoratori. Voglia di retromarcia, invece, almeno parziale, in due dei capitoli già affrontati dal governo Monti: pensioni e lavoro. Il grande pallino di Bersani, poi, è la «politica industriale». Mentre il governo, con il rapporto Giavazzi, sta studiando il modo di disboscare la selva di contributi alle imprese per una riduzione lineare della pressione fiscale su di esse, il segretario del Pd pensa a nuovi incentivi a favore di settori produttivi che ritiene più promettenti. Ogni governante crede di saper allocare le risorse in modo più razionale del mercato, salvo poi scoprire di essersi lasciati guidare dal pregiudizio ideologico. Ma il dirigismo di Bersani si spinge ben oltre, fino a teorizzare un nuovo programma di partecipazioni statali: chiamata ad entrare nel capitale anche di piccole e medie imprese con «partecipazioni minoritarie», definite «di supporto», la Cassa depositi e prestiti si trasformerebbe in una sorta di Iri 2.0.
«Noi siamo quelli dell’euro, siamo quelli dei governi Prodi, Amato, D’Alema, quelli di Ciampi e Padoa-Schioppa», ricorda orgogliosamente Bersani, non considerando che forse in Germania quei nomi sono associati sì all’ingresso dell’Italia nell’euro, ma anche alle promesse non mantenute, ad un’apertura di credito nei nostri confronti che si è rivalata mal riposta.
Ma è Fassina, il responsabile economico del Pd, a elencare al Foglio «i compiti a casa che promettiamo di fare qualora dovessimo andare al governo». E c’è tutto l’armamentario della «dottrina krugmaniana-keynesiana». La gran voglia di allontanarsi dall’agenda Monti, in alcuni casi di contraddirla, viene dissimulata attaccando l’«agenda Merkel» e le politiche fallimentari suggerite nella lettera della Bce dello scorso agosto. Vade retro austerità, dunque, la causa prima del «disastro», bisogna «cambiare rotta rispetto all’agenda Merkel, con la sua spirale di austerità autodistruttiva, e costruire insieme alle forze progressiste europee un’agenda per lo sviluppo sostenibile». Fatta di licenza bancaria al fondo salva-stati, di project bond (un programma di investimenti «con i controfiocchi», «per provare a mettere insieme dal punto di vista pratico le tesi di Keynes sulla domanda effettiva»), di «rigenerazione industriale, a partire dai gioielli di stato», e di «coordinamento delle misure di tassazione in tutta l’Europa per evitare lo scandalo del dumping fiscale». Insomma, se un paese europeo applica aliquote fiscali più basse rispetto agli altri per il Pd si tratta di «concorrenza sleale». Non manca, ovviamente, la patrimoniale «a bassa intensità»: non “una tantum”, ma un’imposta ordinaria, a partire da 1,2 milioni di patrimonio complessivo (prima casa inclusa), i cui proventi verrebbero utilizzati per ridurre le tasse sui redditi da lavoro e di impresa. «Non ci stiamo a presentarci sulla scena come il partito delle tasse», avverte Fassina, meglio «il partito della redistribuzione».
Chiuso l’incidente provocato dalla frase riportata dal Wsj sullo spread a 1.200, il Pdl è stato l’unico tra i partiti di maggioranza a presentarsi da Monti, all’ultimo vertice, con una proposta concreta per l’abbattimento dello stock di debito pubblico. Criticabile e migliorabile quanto si vuole, ma almeno sufficientemente concreta da poterne discutere. E, soprattutto, una proposta che ha il merito di indicare una rotta: quella dell’aggressione diretta al debito accumulato, liberando alcuni spazi di manovra nella politica di bilancio (anche per ridurre le tasse, tagliando la spesa), versus quella di realizzare avanzi primari pluriennali al fine di ridurlo gradualmente, che rappresenta una sorta di ergastolo fiscale. Una strada fallimentare in passato, inizialmente intrapresa dal governo Monti – che però si sta parzialmente correggendo con il piano anti-debito del ministro Grilli – e che il Pd promette invece di perseguire a colpi di patrimoniali.
Chi invece avrà l’agenda Monti come programma, fin troppo acriticamente, è il “polo” a cui sta lavorando Casini, nel tentativo di scrollarsi di dosso l’immagine della politica centrista dei “due forni”. Ma è possibile una “lista Monti” senza Monti? Basterebbe qualche innesto “tecnico” a dar vita a qualcosa di diverso dalla solita minestra centrista? La presenza, anche se nel ruolo di “traghettatori”, di Casini, Fini e Pisanu rischia da sola di ingrigire qualsiasi volto nuovo dovesse aggregarsi alla comitiva.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:13