Depositato alla Consulta il ricorso del Capo dello stato per conflitto di attribuzioni sollevato contro la procura di Palermo, in merito all’uso delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del presidente Napolitano nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia, e celebrati i funerali di un leale servitore dello Stato, il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio, stroncato giovedì scorso da un infarto, appare sempre più diffusa la convinzione, anche ai vertici delle istituzioni e nell’opinione di chi “fa opinione”, che la giustizia italiana sia ormai un sistema impazzito, al di fuori di qualsiasi controllo. Una realtà, se non riconosciuta, quanto meno oggi percepita più di quanto si fosse disposti ad ammettere quando al governo c’era Berlusconi.
Il ricorso alle intercettazioni e la facilità con cui finiscono sui giornali, diventando armi improprie di lotta politica, l’uso distorto della carcerazione preventiva, il protagonismo mediatico di alcuni magistrati, sono solo alcune delle più evidenti anomalie. Non qualche provocatore o agitatore liberale, ma il presidente della Repubblica, nel comunicato in cui ha reso nota la scomparsa del suo braccio destro, e il ministro della giustizia, in occasione dell’estremo saluto, hanno esplicitamente messo in relazione la morte di D’Ambrosio, l’improvviso cedimento del suo cuore, con i sospetti gettati su di lui dalle intercettazioni disposte dai pm palermitani, finite in qualche modo sui giornali, e con l’aggressiva campagna mediatica che ne è seguita. Insomma, l’atroce dubbio che il cuore di D’Ambrosio non abbia retto a causa di accuse infamanti originate dall’uso improprio del potere giudiziario e del “quarto potere” è più che fondato, e coltivato presso le più alte cariche dello Stato.
Il presidente Napolitano, sempre così misurato nelle sue parole, stavolta non ha esitato a tuonare tutta la sua indignazione: «Atroce è il mio rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose cui era stato di recente pubblicamente esposto, senza alcun rispetto per la sua storia e la sua sensibilità di magistrato intemerato, che ha fatto onore all’amministrazione della giustizia del nostro Paese». Così come il ministro Severino ha riferito della sofferenza di D’Ambrosio negli ultimi giorni, quando «non riusciva a capacitarsi di come potesse essere accusato, con tanta veemenza, di aver voluto interferire su indagini in tema di mafia», e per «il peso altrettanto insopportabile di vedersi addebitata l’accusa di avere, in qualche modo, mancato ai propri doveri». Ad essere stritolato dal meccanismo mediatico-giudiziario questa volta non è il politico di dubbia reputazione, dalle frequentazioni ambigue, magari legato alla cerchia berlusconiana, o il cosiddetto “faccendiere”. Tutt’altro: un leale funzionario e un magistrato dal limpido impegno antimafia, anche al fianco di Giovanni Falcone. «Decisivo» definisce la Severino il suo apporto alla nascita della procura nazionale antimafia e della Dia, nonché alla regolamentazione dei maxi processi e del 41-bis. «Un uomo che ha sempre salvaguardato l’autonomia e l’indipendenza della magistratura», lo ricorda la pm di Milano Ilda Boccassini. Insomma, il “sistema” non ha avuto pietà nemmeno di uno dei suoi difensori. Possiamo immaginare, infatti, quale ruolo decisivo abbia avuto D’Ambrosio, insieme agli altri consiglieri giuridici del Colle, Marra e Sechi, nel bloccare o far emendare riforme e leggi in tema di giustizia sgradite alla magistratura, in ossequio al totem dell’autonomia e dell’indipendenza, e a salvaguardia di quello stesso regime delle intercettazioni che si sarebbe così accanito contro di lui. Proprio il presidente Napolitano, che oggi scopre la barbarie del circuito mediatico-giudiziario che si innesca, ha contribuito in misura determinante, nell’estate del 2010, ad affossare l’ultimo tentativo di riformare il regime delle intercettazioni.
Mostrando inequivocabilmente di condividere i «punti critici» mossi alla legge uscita dal Senato, e anticipando che senza «modifiche adeguate» non l’avrebbe promulgata, si avvalse allora di una sorta di veto preventivo, quando la Costituzione attribuisce al capo dello Stato il potere di rinviare le leggi alle Camere, ma solo una volta approvate. Può darsi che quella legge non fosse perfetta, che rispondesse a interessi di parte, ma se il tema a cui oggi si imputa la morte di D’Ambrosio – quello dell’uso disinvolto delle intercettazioni e della loro divulgazione come arma di lotta politica – è scomparso dall’agenda politica e parlamentare, ciò si deve in parte anche al Quirinale, nonché probabilmente all’operato di consigliere della vittima stessa, per la quale oggi si versano lacrime di coccodrillo. Più volte il presidente Napolitano, nei suoi interventi in tema di giustizia, ha stigmatizzato eccessive esposizioni mediatiche ed atteggiamenti protagonistici dei magistrati, richiamandoli ad un’immagine di imparzialità in ogni momento, anche al di fuori delle loro funzioni e nell’esercizio del diritto di critica pubblica. E raccomandato un ricorso alle intercettazioni solo nei casi di «assoluta indispensabilità» e nel rispetto della riservatezza dell’indagato o, ancor più, di soggetti estranei al giudizio.
Ma nei fatti, in qualità di presidente del Csm, è stato latitante come i suoi predecessori. L’organo di autogoverno della magistratura non sanziona adeguatamente i comportamenti che il suo presidente a parole denuncia. Anzi, i magistrati che più indulgono in questi comportamenti “deviati” vengono premiati e onorati, dalla categoria e dai media. Il ministro Severino ha esortato «una seria meditazione sulla giustizia in Italia, sui danni che ad essa e ai cittadini reca la cultura del sospetto, sul ruolo di una magistratura che sempre più deve riaffermare le proprie garanzie di autonomia e di indipendenza non solo su ciò che fa, ma anche su ciò che appare». Il vicepresidente Michele Vietti ha annunciato l’apertura di una «riflessione» da parte del Csm sulla corretta applicazione delle norme sull’udienza-filtro, che dovrebbe selezionare gli ascolti pubblicabili. E auspicando una riforma dello strumento delle intercettazioni, ha parlato di «volontà di passare dalle parole ai fatti». Proprio Vietti, il cui partito è tra quelli che in questa legislatura ha ostacolato ogni ipotesi di riforma. Non c’è da illudersi che il triste caso D’Ambrosio spinga a intervenire sulla materia, lasciando da parte ogni tatticismo politico.
Ma più che una nuova legge sulle intercettazioni occorrerebbe una riforma complessiva della giustizia: che separi nettamente le carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti; che ponga i magistrati di fronte alle loro responsabilità in sede sia civile che penale; che consenta al Csm di tornare ad asssolvere la funzione per cui è stato concepito e istituito: non una sorta di “Consiglio dei guardiani” sull’operato del legislatore in materia di giustizia, né un sindacato delle toghe, ma un organo di autogoverno e una sede disciplinare.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:51