Cosa direbbero gli italiani se il governo Monti proponesse una tassa speciale per evitare il default della Sicilia? Con le debite differenze e in scala ridotta, potremmo ritrovarci presto in casa una piccola Grecia. Allora, forse, chi ha troppo facilmente accusato i tedeschi di miopia ed egoismo per aver condizionato gli aiuti ad Atene a tagli recessivi e scrupolosi controlli, comprenderà meglio la loro “ossessione” per il rigore, cosa significa dover garantire il debito contratto da altri o addirittura doverlo rimborsare a fondo perduto.
Monti è salito di corsa al Quirinale per aggiornare Napolitano, un incontro definito dal presidente «urgente» e «imprevisto», mentre il segretario della Lega Maroni già recapitava il suo «avviso»: «Non pensate di far pagare ancora una volta al Nord i debiti folli della Sicilia. Il Nord ha già dato, ora basta». Duro anche Casini, a sostegno del «serio» intervento del premier. Anche da lui toni “tedeschi”: «Non vogliamo che il disastro in Sicilia contagi tutta l’Italia», in questa situazione «fare appello all’autonomia significa buttare la palla in tribuna». Era stato il numero due della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello, in un’intervista al Corriere, a lanciare l’allarme: la Sicilia è «sull’orlo del fallimento». Stipendi e pensioni regionali sarebbero i primi a saltare, ma anche i servizi ai cittadini. Il debito accertato dalla Corte dei Conti è di 5,3 miliardi di euro, ma è «destinato a salire ulteriormente». Si sospetta infatti che false poste in bilancio e crediti inesigibili possano “coprire” una voragine ben superiore. La Regione, rivela la Cgia di Mestre, ha costi per la politica e per l’acquisto di beni e di servizi, in termini pro capite, 2,5 volte superiori alla media di tutte le altre regioni d’Italia, e quelli relativi agli stipendi del personale addirittura del triplo.
Molte le inchieste giornalistiche che negli ultimi anni hanno documentato sprechi e privilegi. La presidenza della Regione ha più dipendenti del governo britannico (1.385 contro 1.337), e più o meno lo stesso rapporto tra dirigenti e impiegati (1 ogni 6). Il presidente è il più pagato d’Italia, con circa 16 mila euro netti al mese, e i 90 “onorevoli” che siedono all’Ars percepiscono le stesse indennità dei deputati della Camera. I dipendenti regionali sono in tutto circa 18 mila (la Regione Lombardia ne conta un quinto con il doppio degli abitanti).
Se poi si aggiungono “distaccati”, precari, dipendenti delle 34 società controllate o collegate, si superano i 28 mila. Per non parlare dei 30 mila forestali e lavoratori socialmente utili parzialmente a carico della Regione. Il costo del personale, tra dipendenti “ufficiali” e delle società partecipate, e dipendenti pensionati (in Sicilia a carico della Regione), sfiora i due miliardi. La spesa per stipendi è lievitata del 45,7% rispetto al 2001, e quella previdenziale dal 2004 al 2011 del 31% (la riforma Dini è entrata in vigore con 8 anni di ritardo). Fino all’inizio di quest’anno i dipendenti regionali colpiti da disabilità o con genitori disabili potevano andare in pensione con soli 25 anni di servizio (dal 2004 riconosciute 1.736 baby pensioni).
Nonostante tutto questo, apprendiamo di frequente di nuove nomine e nuovi concorsi (l’ultimo quello per 30 “camminatori”, figure incaricate di portare scartoffie da un piano all’altro). Non è tutta responsabilità dell’attuale governatore, Raffaele Lombardo, alla guida della Regione dal 2008, e dal ribaltone del 2010 sostenuto da una maggioranza anomala – Mpa, Pd e Fli – da cui si è sfilata solo da poco l’Udc; né di Totò Cuffaro (Udc), che ha governato dal 2001 al 2008. Si tratta di un malgoverno che dura da decenni e del fallimento dello Stato unitario nel tentare di risolvere la cosiddetta “questione meridionale”. Il Sud Italia proprio non ce la fa ad attestarsi a livelli di produttività, legalità ed efficienza amministrativa paragonabili a quelli del centro e del nord del paese.
Colpa di un’autonomia intesa solo come libertà di spesa, a fronte di trasferimenti comunque assicurati da Roma, e di politiche keynesiane-assistenzialiste incapaci di creare sviluppo. Un modello bocciato dalla storia, che però rischia di rappresentare un’anticipazione del prossimo futuro dell’Eurozona. Se da una parte c’è il rischio effettivo, come ha sostenuto il direttore Diaconale, che la perdita di sovranità a favore dell’Ue corrisponda ad uno smembramento di fatto dell’Italia e ad una subordinazione alla potenza egemone, la Germania, dall’altra sembra più concreto il rischio di “italianizzazione” dell’Eurozona – un Nord ricco e competitivo frenato da un Mezzogiorno assistito e depresso – se costringeremo la Germania e i paesi del nord Europa ad adottare nei confronti dell’Europa mediterranea le stesse politiche sbagliate che per oltre un secolo il nostro Stato unitario ha “somministrato” al Sud Italia. Non sorprende che autorevoli voci della stampa internazionale ritengano arrivata l’ora di riconoscere il fiasco dello Stato unitario italiano.
Secondo Tony Barber (Financial Times), l’ideale sarebbe un’Europa più piccola e compatta, corrispondente più o meno al Sacro Romano Impero, con il Nord Italia (fino a Roma) insieme a Francia, Germania e ai Paesi del Benelux. Mentre sul Wall Street Journal si osserva che «l’Italia non ha mai funzionato come Stato centralizzato» e si suggerisce il ritorno al modello delle Città-Stato rinascimentali. Sta a noi smentirli con i fatti.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:07