Nonostante da più parti si invochino presunte soluzioni definitive alla crisi dell’Eurozona, ci stiamo silenziosamente e lentamente accorgendo che le cose stanno diversamente. Forse qualcuno ancora s’illude, o finge di credere perché così gli impone il suo ruolo di capo partito, che dal giorno dopo le elezioni la politica possa tornare al business as usual pre-crisi. Ma non è così, perché in questa crisi non esiste la pallottola d’argento, il colpo fatale in grado di risolvere la partita. Nonostante imputiamo ai tedeschi di non volerlo spingere, non c’è alcun interruttore. Non gli eurobond, non la Bce come la Fed, non firewalls e bazooka finanziari o monetari. C’è solo da rimboccarsi le maniche per anni e lavorare per ridurre gli squilibri. Prima lo capiamo, meglio è. Ci vorranno anni, perché quelli che ci chiedono i mercati sono cambiamenti epocali sia nel modello economico-sociale, sia nella governance dell’Eurozona. Cambiamenti che richiedono tempi tecnici per essere adottati e politici per essere accettati.
Per questi motivi, e per lo scenario politico interno, in cui i partiti maggiori (Pd e Pdl) si dimostrano incapaci di autoriformarsi, sia per quanto riguarda la proposta politica che la leadership, in cui i loro alleati storici si abbandonano alla demagogia (Lega e Idv) e all’ideologia (Sel), in cui il Terzo polo, lo si è capito alle amministrative, non decolla, e in cui si stagliano all’orizzonte forze populiste (Grillo) o liberal-riformiste che però rischiano di restare elitarie (Italia Futura), ecco che la prospettiva di un Monti-bis per la prossima legislatura non può essere liquidata a cuor leggero.
Bisogna non solo considerare l’arduo programma di rientro dal debito e di ritorno alla crescita su cui l’Italia dovrà rimanere concentrata per i prossimi anni (da far tremare i polsi), ma anche la credibilità che la figura di Monti – nonostante i suoi successi europei siano più “pompati” dai grandi giornali compiacienti che reali, e nonostante errori e annacquamenti nelle riforme – continua ad avere presso le istituzioni e i partner europei, tanto da costituire di per sé una vera e propria garanzia, forse l’unica, che possiamo offrire a fronte delle misure e delle politiche che chiediamo come paese indebitato.
È indubbio, d’altronde, che la ripresa dell’iniziativa di SuperMario (al di là del giudizio di merito, in Europa con lo scudo anti-spread e sul fronte interno con la spending review), il ritorno delle tensioni sui titoli di stato e il tramonto dell’ipotesi elezioni anticipate, hanno rafforzato Monti, dopo quella lunga fase di stallo prontamente denunciata dai media internazionali e coincisa con il flop sulla riforma del lavoro.
Ma il governo tecnico è scaturito dall’emergenza, tanto che per renderne possibile la formazione Monti si è impegnato con le forze politiche a non scendere in campo nel 2013. Impegno confermato anche ieri: «Ho sempre escluso, e anche oggi escludo, di considerare una esperienza di governo, per quanto mi riguarda, che vada oltre le prossime elezioni politiche». Ma d’altra parte il premier fa notare che sullo spread pesa l’incertezza dei mercati su ciò che intenderà fare il governo politico che uscirà dal voto del 2013, e osserva che con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale questa preoccupazione peserà sempre di più, fino a divenire predominante sull’eventuale apprezzamento per le misure nel frattempo varate dal governo uscente.
In questo momento il premier non può che escludere l’ipotesi, perché l’annuncio di una sua disponibilità a continuare destabilizzerebbe il governo e i partiti che lo sostengono. «Penso che l’Italia abbia diritto ad essere una democrazia come le altre, con un centrodestra che si confronta con il centrosinistra e il centro che decide con chi stare. Questo è lo schema democratico e io non ci rinuncio», fa sapere Bersani. Se, dunque, un Monti-bis non può essere escluso a priori (tutti lo pensano ma nessuno può ammetterlo), nemmeno può essere vissuto come un esito ineluttabile e auspicabile “ad ogni costo”. Al contrario, potrebbe essere “presentabile” e vantaggioso dal punto di vista della politica economica in presenza di certe condizioni politiche, o rivelarsi un inutile e anzi pericoloso pastrocchio sotto altre.
Purtroppo, tra i vari scenari in cui si vede Monti tornare a grande richiesta a Palazzo Chigi, il peggiore è anche il più probabile: il premier che fa sapere riservatamente di «restare a disposizione»; i partiti che, dopo aver messo a punto una legge elettorale funzionale ad un’eventuale grande coalizione, danno vita ad una campagna muscolare, ma in ultima analisi farsesca, e una volta presi i voti chiedono a Monti di mettersi alla guida di un governo (e di un sottogoverno) questa volta “politici”. Non solo un’autentica presa in giro degli elettori, ma anche un governo afflitto dalla nascita dal virus dell’inconcludenza: senza investitura popolare, con un programma confuso (o annacquato o contraddittorio), quindi prigioniero di veti e controveti. Perché le visioni e gli interessi contrapposti dei partiti possono restare in secondo piano per un anno o due di emergenza, ma non lungo l’arco di un’intera legislatura.
Un’ipotesi, quest’ultima, che sembra essere sfumata dopo le parole di prammatica del premier. Che ieri ha fatto sapere di «escludere» un suo ritorno al governo dopo il 2013.
Ma diverso sarebbe se Monti decidesse di presentarsi in modo trasparente, chiedendo il sostegno esplicito dei partiti e dei cittadini su un programma preciso, che non potrebbe che essere quello indicato dal governatore della Bce Mario Draghi: «Perseverare in riforme coraggiose e necessarie»; e, passata l’emergenza, tamponata dai paesi più indebitati nel modo politicamente più facile, cioè aumentando le tasse, «riorientare» le politiche di risanamento verso una riduzione della spesa pubblica di dimensioni tali da rendere possibile un calo della pressione fiscale. Meno stato-meno tasse, insomma. Ovviamente, scegliendo questa strada Monti dovrebbe accettare il rischio di non ottenere il sostegno di tutti i partiti dell’attuale maggioranza, o addirittura di nessuno di essi, quindi di schierarsi politicamente.
Una cosa ci sembra certa: non può avere successo un programma di riforme che non abbia ricevuto la “benedizione”, il consenso esplicito del corpo elettorale. Delle due l’una: o è destinato a fallire, contrastato dalle lobby, o non è in programma di vero cambiamento.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:10