Prima di commentare una sentenza bisognerebbe leggerla. Ma in questo caso, che i giudici abbiano applicato alla lettera le leggi, oppure si siano lasciati prendere la mano da considerazioni ideologiche, qualche riflessione si può anticipare sulle cause profonde, culturali, di certe distorsioni, in presenza delle quali un’economia semplicemente non può funzionare.
Nei giorni scorsi il Wall Street Journal pubblicava un articolo nel quale con toni sarcastici si dava conto di tutta la selva di oneri fiscali, contributivi e burocratici cui un imprenditore in Italia deve far fronte per “creare” lavoro. Dal che desumeva che la riforma del lavoro, la «boiata» di cui cui però si chiede una rapida approvazione, e il recente decreto sviluppo, di cui va così orgoglioso il ministro Corrado Passera, possono risolvere i problemi dell’economia italiana «solo nel senso che si potrebbe, teoricamente, svuotare il Lago di Como con un mestolo e una cannuccia».
Ebbene, rispetto ai mestoli e alle cannucce del governo Monti la sentenza che condanna la Fiat ad assumere nello stabilimento di Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom rappresenta un diluvio universale. Non c’è riforma, intervista per rassicurare gli “Herr Muller”, road show del nostro premier, o curriculum personali che reggano. Una sentenza simile, anche se dovesse essere riformata in appello, spazza via tutto (figuriamoci le timide riforme che sono state fatte). Dimostra al di là di ogni buona intenzione riformatrice che per le imprese l’Italia è sempre più un paese da cui fuggire. Non solo fornisce alla Fiat di Sergio Marchionne ottimi motivi per trasferire tutta la produzione all’estero, ma allontana chiunque, italiano o straniero, volesse investire nel nostro paese. Nel rapporto “Doing Business 2012” della Banca Mondiale l’Italia risulta all’ultimo posto in Europa, e al 158esimo su 183 paesi, per l’efficienza del sistema giudiziario nella risoluzione delle controversie commerciali: i procedimenti sono costosissimi e lunghissimi: 1.210 giorni per una sentenza, contro i 515 della Spagna, i 394 della Germania o i 300 degli Usa.
Si badi bene: non siamo di fronte ad un normale caso di discriminazione, in cui alcuni lavoratori licenziati ingiustamente per la loro affiliazione sindacale vengono reintegrati. In questo caso i giudici obbligano la Fiat ad assumere ex novo 145 lavoratori iscritti alla Fiom. Dunque, non solo costringono l’azienda ad ampliare l’organico della fabbrica, a prescindere da qualsiasi valutazione di economicità, ma scelgono i nuovi assunti sulla base della loro tessera di iscrizione a un sindacato, quindi prescindendo da qualsiasi criterio di merito, competenze o mansioni. E pazienza se questo significherà che lavoratori più qualificati dovranno fargli posto.
Ma l’aspetto ancora più assurdo della vicenda è che la prova della discriminazione da parte di Fiat consiste in una simulazione statistica: un professore di Birmingham ha infatti calcolato che le possibilità che su 2.093 assunti a Pomigliano nessuno fosse iscritto alla Fiom risultano meno di una su dieci milioni. Ma com’è possibile che un semplice dato statistico sia accettato come prova decisiva? Bisogna ringraziare uno dei capolavori illiberali che ci ha regalato il governo Berlusconi, oltre al “mostro” Equitalia: l’art. 28 del decreto legislativo 150 del 2011 stabilisce, infatti, che i comportamenti discriminatori sul luogo di lavoro possono essere «desunti anche da dati di carattere statistico», e in questo caso «spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione».
La sentenza quindi stabilisce una rigida regola di proporzionalità: nelle assunzioni va mantenuta la percentuale di iscritti tra i vari sindacati, anche se uno di essi (come la Fiom a Pomigliano) non ha sottoscritto il contratto collettivo aziendale, altrimenti c’è discriminazione. Altro che merito, siamo al manuale Cencelli delle tessere sindacali. Ma se di discriminazione si tratta, che dire di quelle di genere, razza, lingua, religione, opinioni politiche e orientamento sessuale, esplicitamente vietate dalla nostra Costituzione? Se il criterio da seguire per non discriminare è statistico, le aziende dovranno rispettare le percentuali di uomini e donne, o di musulmani, omosessuali, o di qualsisi minoranza, censiti nella società. E perché non anche delle diverse fedi calcistiche, o del colore dei capelli? E i non iscritti ad alcun sindacato? Vengono tutelati anch’essi, in modo da essere assunti in proporzione al proprio numero rispetto ai colleghi iscritti?
Evidentemente non può funzionare così. Ma purtroppo chi ha un po’ d’esperienza diretta del mondo del lavoro sa che per evitare simili problemi sono gli stessi imprenditori che assumono lavoratori indicati dai rappresentanti sindacali e degli ordini professionali. Esistono veri e propri accordi di “precedenza” nelle assunzioni, che penalizzano i non iscritti, non “leccaculo”, anche se magari più meritevoli.
In Italia, dunque, sindacati e magistratura non solo decidono chi le aziende possono o non possono licenziare, ma anche chi devono assumere. Si può anche essere convinti che astratti principi di uguaglianza (ammesso e non concesso che di uguaglianza si tratti) debbano sempre e comunque prevalere su qualsiasi criterio di economicità e di mercato. Basta però essere consapevoli che così l’economia semplicemente non funziona, le aziende fuggono all’estero e si cancellano posti di lavoro anziché crearli.
Ma c’è una causa profonda, culturale, per cui in Italia il legislatore e coloro che sono chiamati ad applicare le leggi aprono le porte a delle forme di vero e proprio collettivismo: c’è un gigantesco equivoco sul concetto di proprietà e una radicata e diffusa ignoranza economica. Un’impresa è di proprietà di chi ci mette i soldi. È spiacevole rammentarlo ma è così. Si può tirare la corda quanto si vuole con i diritti sociali, finché poi si esagera e costui non ci mette più i soldi, chiude la baracca, i lavoratori sono a spasso e il paese si impoverisce. Questa realtà basilare ce la siamo dimenticata. Non riuscirà a liberale e rilanciare la nostra economica nessun governo, nessuna maggioranza politica, che non ne sia consapevole e che non sia disposta ad ingaggiare una dura battaglia ideologica, di piglio thatcheriano, su questi temi. Anche su questo il governo Monti, con il suo patetico compromesso sull’articolo 18, ha fallito.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:09