Misure reali, incisive, da subito operative, oppure solo annunci, bluff, rinvii e personalismi? Dopo uno studio più approfondito, il pacchetto sviluppo varato dal governo venerdì scorso sembra appartenere più alla categoria degli annunci e delle promesse che non dei fatti. E quel che è peggio è che ciò che luccica – incentivi e dismissioni – non è oro. All’indomani della conferenza stampa di presentazione del provvedimento i grandi giornali hanno accolto l’ultimo sforzo dell’esecutivo Monti con una generosità che non avrebbero riservato ai governi precedenti, titolando in prima pagina, enfaticamente, sui presunti 80 miliardi che starebbero per inondare l’economia reale, nonostante fosse già evidente ad una lettura superficiale del decreto quanto in realtà si trattasse di risorse più virtuali che reali. Innanzitutto, per rendere pienamente operativi i 61 articoli che compongono il pacchetto bisognerà aspettare ben 45 provvedimenti tra decreti e atti ministeriali, molti senza scadenza o con termini che vanno dai 60 giorni a fine 2013. Ed è nei dettagli che si nasconde il diavolo. In particolare, però, la delusione è sugli incentivi e sulle dismissioni, dove il governo mostra di fare il gioco delle tre carte.
I soldi sono sempre gli stessi, si spostano da una parte all’altra per costituire nuovi fondi. I due miliardi del nuovo “Fondo per la crescita sostenibile” arrivano da decine di rivoli esistenti, che convogliati fanno un fiume forse più gestibile, o forse no. Vedremo. Non viene elevato da 500 mila euro ad 1 milione il tetto per le compensazioni Iva e manca un’altra misura a lungo attesa: l’incentivo per l’innovazione tecnologica. Da anni le imprese chiedono un vero credito di imposta per ricerca e innovazione, destinato a incentivare l’acquisto di strumentazioni, brevetti, materiali per svolgere attività di ricerca tecnologica. Al suo posto, un contentino: l’incentivo per l’assunzione di personale qualificato, per favorire evidentemente l’occupazione giovanile, ma a cui andranno delle briciole: 25 milioni quest’anno e 50 il prossimo. D’altra parte, bisogna ricordare che dei 33 miliardi sotto la voce “incentivi alle imprese” in realtà ben 31,7 sono destinati ai grandi gruppi pubblici (come Poste e Ferrovie) a titolo di trasferimenti a fondo perduto. Soldi veri, invece, quelli per le detrazioni fiscali su ristrutturazioni edilizie e di efficienza energetica, portate dal 36 al 50% delle spese sostenute, fino ad un tetto massimo elevato di 96 mila euro. Ringrazia il presidente di Confindustria Squinzi, proprietario della Mapei, il quale però non rinuncia ad attaccare la riforma del lavoro, definita una «vera boiata», ma da approvare entro il 28 giugno come chiede Monti. Improvvisamente, infatti, il premier si è accorto che una rapida approvazione della riforma del lavoro era essenziale per far percepire ai mercati e ai partner Ue la piena operatività del governo e non la sua stasi, ma è stato lo stesso presidente del Consiglio a scegliere la via del ddl, e non quella del decreto, come fino ad allora aveva fatto per gli altri provvedimenti. Ora pretende che la riforma sia approvata anche dalla Camera prima del prossimo Consiglio europeo, il 28 giugno, ma per ottenere un iter più rapido rischia di dover concedere qualcosa di troppo al Pd sugli “esodati”. Tornando al pacchetto sviluppo, anche l’ampliamento della Srl semplificata agli over 35 sembra un bluff (forse per tentare di scalare posizioni nella classifica “Doing Business” stilata ogni anno dalla Banca mondiale): non ci sarebbero i soldi per estendere le agevolazioni fiscali previste per i giovani, quindi si parla di un rimborso spese futuro, fino ad un tetto massimo che verrà identificato successivamente da un decreto ministeriale. Un vero e proprio inganno potrebbe nascondersi dietro le annunciate dismissioni. Vendendo alla Cassa depositi e prestiti, pubblica al 70%, lo Stato in pratica vende a se stesso, rinazionalizza gli asset appena ceduti e non offre una garanzia precisa che le cifre incassate vengano effettivamente ed interamente destinate all’abbattimento diretto del debito. Ma c’è di più: non solo non si tratta di vere privatizzazioni, che avrebbero effetti positivi non solo sul debito ma anche per la crescita. La vendita alla Cdp di Snam rete gas per 20 miliardi e di Sace, Fintecna e Simest per altri 10 sembra un’operazione nel senso opposto: la ripresa di una politica industriale tramite una nuova Iri, la Cdp appunto, che in questo modo “blocca” in acquisizioni (solo le prime?) 30 miliardi che potevano essere impiegati per fare credito, la mission originaria della Cassa.
Per quanto riguarda gli immobili di proprietà dello Stato e delle autonomie territoriali, non tutti i proventi verranno destinati all’abbattimento dello stock di debito. Nel fondo partecipato da Mef e Agenzia del demanio confluiranno i cespiti delle amministrazioni centrali, ma solo quelli non utilizzati, per un valore di 7 miliardi su 62, e i beni che dovevano essere trasferiti dallo Stato a Regioni, Province e Comuni nell’ambito del federalismo demaniale. Gli introiti dei primi andranno al 100% a ridurre il debito (con un’eccezione per la Difesa, che si vedrà attribuire il 30% del valore dei propri beni inutilizzati); gli introiti dei secondi solo al 25%, mentre il 75% spetterà all’ente locale. Per quanto riguarda gli asset conferiti dagli enti locali, il 75% tornerà all’amministrazione proprietaria sotto forma di quote del fondo, il 25% cash, con il rischio quindi che questi introiti vadano a ingrossare la spesa locale piuttosto che ad abbattere i debiti.
Conferire il patrimonio mobiliare e immobiliare dello stato, delle regioni e degli enti locali che si intende cedere ad una società-veicolo esterna, che opera secondo regole di mercato, in modo che gli asset possano servire da garanzia per strumenti di debito emessi dalla stessa società-veicolo, non acquistabili ma scambiabili solo con titoli di stato, permetterebbe invece un sicuro ed immediato abbattimento del debito pubblico. Ma il governo non sembra voler seguire questa strada.
Difficile che i mercati si facciano incantare dal gioco delle tre carte del nostro governo, anche se a guidarlo c’è un tecnocrate di nome Mario Monti. Alla politica degli annunci e dei bluff si affiancano i personalismi dei ministri. Le fin troppo conclamate ambizioni politiche di alcuni (Passera e Barca, per fare il nome di due prodighi di interviste e presenze a convegni politici) non aiutano. Il Financial Times in un suo recente editoriale ha già chiesto di metterle da parte perché ostacolano il lavoro del governo: «Se è incomprensibile come alcuni ministri, distratti dalla crisi dei partiti, possano nutrire ambizioni politiche, dovrebbero comunque o metterle da parte, o lasciare il governo e coltivarle».
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:18