Nel 1931 Aldous Huxley pubblicò un romanzo di fantascienza dal titolo Il mondo nuovo che descriveva una società allora inimmaginabile, strutturata in caste: all’interno di ognuna gli individui avevano caratteristiche genetiche omogenee finalizzate al ruolo assegnato alla casta stessa. Gli alfa costituivano la classe dirigente; attraverso i beta, i gamma, i delta, gli epsilon, si giungeva al livello più basso, ad una sorta di semi-uomini destinati a svolgere le mansioni più umili.
Il numero e la destinazione degli individui erano frutto di una programmazione precisa: “gli uomini”, prodotti artificialmente, venivano in seguito condizionati ad accettare il loro ruolo, affinché le caste convivessero pacificamente. Ogni problema era risolto: non più megalopoli violente e disperate, non più esplosione demografica, ma un pianeta spensierato e gioioso anche se non più umano.
Nel 1931, nell’America ancora con i postumi della grande recessione, il libro di Huxley fu solo un gradito diversivo e nessuno pensò che a circa venti anni di distanza sarebbero state gettate le possibili fondamenta del suo Mondo Nuovo.
Bastò attendere il 1953 quando James Dewey Watson e Francis Harry Crick decifrarono l’esatta struttura del Dna per scrivere la premessa di quel romanzo. Passarono appena dieci anni che, alla metà degli anni Sessanta, il premio Nobel Jacques Monod, insieme a David Perrin e Agnes Ullmann riuscì a realizzare i primi esperimenti d’ingegneria genetica. Furono così creati i presupposti di una grande rivoluzione che di lì a poco avrebbe avuto uno sviluppo incredibile.
Nel 1973 all’Università della California si effettua il primo esperimento d’ingegneria genetica: con la tecnica del Dna ricombinante un batterio, il cui Dna è stato modificato, diventa resistente agli antibiotici. Nel 1978 la General Electric ottiene il primo brevetto della storia per un nuovo essere vivente: un batterio in grado di digerire il petrolio. Poco dopo, nel 1982, si ha la prima importante acquisizione farmacologica: viene messa in vendita una insulina prodotta con biotecnologie. Negli Usa, nel 1984, nasce una bambina a seguito di un impianto d’embrione e nel 1987 viene individuato il gene che determina il sesso del nascituro. Sempre negli Stati Uniti viene concessa l’autorizzazione a effettuare trapianti di geni in cellule umane. In Europa, il 12 marzo del 1985 il Consiglio delle Comunità europee ha approvato lo sviluppo delle biotecnologie nell’agricoltura e nell’industria e ha stanziato ingenti fondi a tal fine.
La geneterapia è ormai diventata operativa per alcune malattie da immunodeficienza, per la talassemia e l’emofilia. Nella Penisola sono numerose le ricerche in questo campo. Dal 1982 (anno in cui il Cnr dette il via alle ricerche) si lavora in numerosi laboratori nel Paese per realizzare sonde molecolari per la diagnosi prenatale di malattie ereditarie, lo sviluppo farmaceutico per la produzione degli enzimi, per i vaccini e per la produzione di anticorpi monoclonali.
Morale ed etica rappresentano tema sempre in discussione. La trasformazione degli organismi, ottenuta attraverso la ricombinazione artificiale dei geni, pone problemi morali rilevanti; le frontiere di questa branca della Biologia sono in continua evoluzione e appare difficile stabilire un limite alla liceità della sperimentazione. La Bioetica, infatti, dalle origini ha indagato una molteplicità di problemi: oltre alla legittimità sostanziale dei vari esperimenti, anche la possibile pericolosità pratica degli stessi. Bisogna quindi calcolare che da anni si sta attuando una vera e propria rivoluzione culturale riguardo al concetto di vita.
Nel caso dell’uomo, comunque, vi sono pericoli d’altro genere, dovuti alla mappatura del genoma umano che consente d’individuare i difetti genetici degli individui. Il principale problema appare quello attinente alla privacy, in relazione agli esperimenti di genetica: il rischio è quello che nella società del futuro vi sia un controllo totale dell’uomo, che ci avvicinerebbe di molto alle allucinanti prospettive di Huxley.
Interrogativi inquietanti, viaggiano spontanei: la scienza pone gravi e seri problemi e compito dello scienziato è provare la bontà della sua ricerca. Appare evidente come siano proprio gli addetti ai lavori a porsi per primi problemi morali e a interrogarsi continuamente sul significato del loro lavoro. Tutti comunque rifiutano lo stereotipo della incontrollabilità della scienza e sottolineano come invece, con adeguati controlli, si possano ottenere enormi benefici che solo gli stolti potrebbero rifiutare. Certo è che i rischi vi sono, soprattutto se si pensa che il desiderio di agire in un modo o nell’altro sull’uomo, anche in modo sommario, è da sempre esistito: basti pensare al sogno vaneggiante di Adolf Hitler di costruire una razza eletta.
I punti di vista sono dunque diversi e spesso inconciliabili, da qui la necessità di un nuovo campo di ricerca e di studio: la Bioetica può essere definita come lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto questa condotta è esaminata alla luce dei valori e dei principi morali.
Così è accettabile che l’uomo utilizzi le conoscenze biologiche per modificare le specie viventi? O attraverso le biotecnologie, realizzi nuove specie viventi? Queste domande possono essere applicate sia alla biosfera che, in particolare, all’uomo. Il punto nodale è che la ricerca non rechi danno all’uomo. Più difficile è rispondere alla prima domanda se il soggetto è l’uomo, se invece è il mondo nella sua globalità la risposta potrebbe essere positiva, specie se inquadrata in un’ottica utilitaristica. Si pensi ad esempio alla maggiore produzione agricola o all’uso di microrganismi per combattere alcune forme d’inquinamento. Assai più complesso appare il problema quando ci si riferisce all’intervento sulle cellule, sia somatiche che germinali. La seconda domanda appare legata alla precedente e da essa non scindibile.
Proviamo ora ad analizzare il problema partendo da un’altra ottica riferita solo all’uomo. Se da determinate cellule somatiche umane si preleva un tratto di Dna per trasferire un dato gene nel genoma di microrganismi, per trasformarli in produttori di sostanze di sintesi. I problemi sorgono quando queste tecniche mirano a modificare l’assetto genetico di un individuo già esistente, oppure in via di formazione. È questa la vera ingegneria genetica umana. Semplificando, possiamo distinguere due tipi: quella terapeutica o geneterapia e quella non terapeutica o alternativa.
Il medico interviene non per modificare la natura, ma per aiutarla a svilupparsi. Ma è più che mai necessario superare la separazione tra scienza ed etica, ritrovare la loro profonda unità, per la salvaguarda della dignità umana. Così il diritto alla malattia (nel senso di diritto a non essere discriminato soprattutto per malformazioni o predisposizioni genetiche), diritto di morire, diritto di morire con la sopra richiamata dignità. Non fermare dunque le ricerche, non favoleggiare oscurantismi privi di senso, ma non perdere mai di vista cos’è l’uomo, il suo irripetibile valore: operando in tal modo l’ingegneria genetica sarà solo una delle più grosse conquiste della stirpe umana e il libro di Huxley, semplicemente un curioso e inquietante romanzo di fantascienza.
In sintesi, il punto nodale è se la così detta manipolazione genetica è volta solamente alla cura delle malattie che oggi sono orfane di terapia, alla cura delle neoplasie, di malattie autoimmuni o da immunodeficienza o se viene utilizzata per il miglioramento della specie, per migliorare le performance fisiche dell’uomo. Il confine è in alcuni punti labile ma non si può oltrepassare.
Aggiornato il 08 luglio 2021 alle ore 12:12