
La pressione è un privilegio. E nel nome dell’inclusività deve esserlo per tutti. Anche per i poppanti appena entrati alla scuola materna. Lasciano perplessi le dichiarazioni di Elisabeth Borne, già primo ministro francese da maggio ’22 a gennaio ’24, ora ministro dell’Istruzione nazionale, sulla necessità che i bambini “possano pensare a come immaginano se stessi in un programma di formazione”. Bisogna “prepararsi fin da giovanissimi”, è l’imperativo di Borne, intervistata dal programma Lcp, “fin dall’inizio”, addirittura “fin dall’asilo”, a “pensare a come si intende proseguire la propria formazione e la propria carriera in futuro”. La questione dell’orientamento scolastico, dunque, deve essere presa in considerazione già dalla prima infanzia. Tesoro di mamma, vuoi fare il pompiere o l’astronauta? La società competitiva non fa sconti a nessuno. E pretende idee chiare già nella culla. Una manna per le famiglie caricate a pallettoni che non vedono l’ora di alzare ulteriormente il livello dello stress dei loro figli. Formazione continua, dalla culla alla tomba: il Piano Beveridge riveduto e corretto. La durezza del vivere va fatta masticare subito. Altro che le zinne di mamma fino a 3 anni. L’orientamento (professionale) o è precoce o non è. Basta con i 50enni immaturi e che non sanno ancora cosa faranno da grandi. Il futuro ha bisogno di gente nata pronta. Curriculum e moschetto. E al resto ci pensa il mercato. L’uscita dell’ex primo ministro è in coerenza con quanto proposto da Emmanuel Macron nel marzo ’22, in piena campagna elettorale per le presidenziali: “Programmi di studio-lavoro, apprendistato e orientamento a partire dalla quinta elementare”. Il presidente si corresse poi parzialmente qualche giorno dopo affermando che “a 12 anni bisogna permettere ai giovani di fare esperienza professionale”, cioè “consentire alle regioni e alle aziende di recarsi nelle scuole per qualche ora”. Come dire, sappiamo dove studiate, vi teniamo d’occhio. Ironia (d’obbligo) a parte, 3 anni dopo il sasso lanciato da Macron, l’Eliseo prova di nuovo a sollecitare i francesi sull’argomento, per vedere un po’ l’effetto che fa, e soprattutto se hanno la memoria corta.
Ora, è evidente che non ci voleva la macronie per invitare i bambini a “immaginare se stessi” da grandi, poiché notoriamente si tratta di un’attitudine spontanea dei piccoli nel momento i cui cominciano a relazionarsi con il mondo. Il problema è che si vuole far diventare quella che naturalmente è un’inclinazione ludica e creativa dell’infante un approccio diremo ingegneristico-sociale, per soddisfare la fame di carne da cannone degli eserciti moderni chiamati aziende. Ovviamente, senza tralasciare, ma anzi rendendo ancora più centrale, la necessita di sviluppare il mito culturale per eccellenza dei nostri tempi: l’autostima. Che nasce da una richiesta incessante di identità, come afferma Frank Furedi nel suo Therapy culture: cultivating vulnerability in an uncertain age, che nella versione italiana (Feltrinelli) diventa Contro la psicologia. Come la deriva terapeutica rende vulnerabili individui e società. Talmente incessante che ormai deve partire già dall’asilo. Perché il benessere personale, definito quasi esclusivamente sull’identità professionale, secondo i deliri macronisti, ha quasi il dovere di essere programmato nei primissimi anni di età, non fosse altro perché quello stesso benessere personale-identitario-professionale che si definisce autostima, non è più ora considerabile solo una questione privata ma riguarda tutta la collettività. Mettere pressione sui piccoli, dunque, per evitare guai peggiori in età adulta. Perché è proprio la mancanza di autostima, afferma la non trascurabile letteratura al riguardo, che genera ansia, depressione, paura dei legami o del successo, fino alle molestie e alle percosse.
L’autostima è un vaccino sociale da inoculare fin dai primi mesi di vita. Più essa diviene qualcosa di vago, fluttuante e adattabile a qualsiasi circostanza, scrive Furedi, più in realtà si consolida come un dogma indiscutibile, una chiave di lettura universale in grado di spiegare complesse questioni sociali. Il che evidenzia, rileva l’autore, che sono all’opera potenti forze culturali che hanno poco a che fare con la ricerca scientifica. Quella vera, infatti, e nello specifico lo studio condotto da Nicholas Emler della London Schools of Economics, definisce una “leggenda” l’idea che una bassa autostima induca i ragazzi a un comportamento antisociale. In base alle ricerche pubblicate su riviste scientifiche, il rapporto Emler, scrive Furedi, sostiene che è invece più facile che siano razzisti, si comportino da bulli, guidino in stato di ebbrezza e facciano gare di velocità ragazzi più sicuri di sé. La “convinzione diffusa che consolidare l’autostima sia una panacea per qualsiasi tipo di problema sociale”, conclude Emler, “ha creato un gigantesco mercato per i manuali di auto-aiuto e per i programmi educativi, che rischiano di diventare l’equivalente psicoterapeutico del balsamo di tigre”.
Aggiornato il 11 aprile 2025 alle ore 09:53