Grazie dei dazi, ma anche no

Chi vince nella guerra dei dazi? Nessuno, a quanto pare. L’ossessione tariffaria di Donald Trump potrebbe infatti rivolgersi a suo danno, dato che l’aumento delle tariffe graverebbe in primis sui soggetti importatori che, a loro volta, dovrebbero poi rivalersi sui consumatori americani. A meno che o l’esportatore, ovvero l’importatore di un determinato bene non decida di mantenere invariati i prezzi al consumo. I primi possono farlo riducendo i propri margini di guadagno; i secondi invece, nel caso che l’esportatore rifiuti di assumersi l’aggravio degli oneri relativi, sono obbligati a rivolgersi per prodotti equivalenti ad altri venditori internazionali che, a loro volta, o non sono essi stessi soggetti all’aumento dei dazi, oppure li vendono normalmente a prezzi convenientemente inferiori. Se l’alternativa non è possibile (beni prodotti all’estero in regime di monopolio, o semplicemente non sostituibili qualitativamente), allora è chiaro che l’aumento delle tariffe dovrà essere scontato in toto dal consumatore americano. Ma Trump sta scommettendo sul fatto che sarà lui alla fine a vincere il braccio di ferro, obbligando noi europei a delocalizzare in America le fabbriche di beni più colpiti dai dazi, in modo da favorire le classi operaie americane, devastate dalle Rust Belt della prima globalizzazione. Tuttavia, in assenza di “controllori di volo” a terra che guidino la dinamica umorale di Trump (del tipo “metti-togli” i dazi come principio di regolazione dei rapporti politici ed economici internazionali), l’impatto sulla sua base Maga potrebbe essere elettoralmente devastante per il candidato repubblicano che si presenti alle elezioni del 2028, chiedendo il sostegno del movimento.   

Questo perché il mondo degli affari ha bisogno di stabilità, per programmare a medio-lungo termine i propri investimenti soprattutto esteri. Cosa resa possibile durante il primo mandato Trump in cui, effettivamente, il Deep State aveva voce in capitolo, dato che il presidente si era circondato di consiglieri più convenzionali ed esperti, in grado di farlo desistere dalle iniziative peggiori, per cui era sufficiente ignorare o reinterpretare le sue istruzioni o, addirittura, far sparire semplicemente dal suo tavolo le carte incriminate. Invece, in questo suo secondo mandato Trump si è circondato di “yesman”, che devono i loro prestigiosi incarichi di governo soltanto alla fedeltà incondizionata verso il capo. E costoro, a quanto pare, restano al proprio posto, malgrado sbandate tremende, come quelle recenti, a proposito del “Signalgate”, in cui su un canale non protetto si è verificata una fuga (involontaria, si spera, ma è meglio dubitare!) di importanti segreti di Stato. Si è trattato, in merito, di un’imperdonabile divulgazione di piani militari americani per contenere la minaccia degli Huthi, al fine di proteggere la libertà di navigazione nel Canale di Suez. Dove, come ha fatto notare nella chat incriminata il vicepresidente J.D. Vance, passa solo il 3 per cento del traffico commerciale Usa, contro il 40 per cento di quello del Vecchio continente, per cui le armi americane ancora una volta dovevano spendersi a difesa di quei parassiti degli europei.

Ora, chi è appena dentro le cose dell’intelligence, ha qualche fondato dubbio sulla “involontarietà” della cosa che, come si dice in gergo, fa fischiare le orecchie sia all’Iran (ti possiamo colpire quando e come vogliamo, neutralizzando le tue marionette yemenite), sia a Bruxelles, per dire a Ursula Von der Leyen & Co: sbrigatevi a darvi da fare, altrimenti siete più che rovinati senza il nostro aiuto. Anche se il Signalgate potrebbe essere una diretta conseguenza dell’epurazione in atto nei ranghi dell’Fbi, e della nomina di assoluti incompetenti in materia di sicurezza nazionale. Tuttavia, i problemi dell’Amministrazione Trump II sono tutti interni, dato che le recenti mosse della Casa Bianca possono pregiudicare seriamente il benessere e la qualità della vita dei cittadini americani, molto più esposti di ieri ai rischi di recessione, alta inflazione e pericolosi crolli della Borsa Usa, dove si colloca il 60 per cento del risparmio americano concentrato nei fondi pensione. Pertanto, un notevole calo dei corsi azionari e, quindi, della redditività degli investimenti, potrebbe provocare una forte diminuzione dei consensi per Trump, con ripercussioni nettamente negative sulle elezioni di midterm. Se i tagli alla forza-lavoro nel pubblico impiego dovessero poi riverberarsi ben oltre i confini amministrativi di Washington Dc, ciò provocherebbe significative ripercussioni sul reddito delle famiglie interessate, così come i tagli governativi alla social security potrebbero andare a colpire le tasche di milioni di persone.

Ora, una cosa è prendersela politicamente con vicini e alleati (soprattutto europei) che l’elettore americano mediamente non sopporta, un altro invece è minacciare l’annessione del Canada o scatenare guerre commerciali non necessarie con i vicini latinoamericani. Nel primo caso, se Ottawa dovesse passare alle ritorsioni sui dazi americani, aumenterebbe la bolletta energetica del consumatore statunitense, a causa della lievitazione dei costi dell’energia elettrica e del petrolio che gli States importano annualmente dal Canada. Idem per quanto riguarda il Messico, da cui l’America importa il 50 per cento del suo fabbisogno ortofrutticolo. Per non parlare del crollo delle vendite di macchine americane in Canada e Messico, se questi due Paesi dovessero imporre tariffe del 25 per cento sulle auto importate. Insomma, il populismo trumpiano può benissimo vincere la sua battaglia culturale antiwoke e ottenere il plauso dei suoi seguaci di Maga, ma se questi ultimi dovessero vedersi impoveriti dalle politiche economiche del loro presidente, allora alla prossima tornata elettorale conterà molto più il portafoglio dell’ideologia. Avvertimento più che valido per l’Europa di Bruxelles, che intende scaricare sui Paesi membri e sui loro contribuenti i costi della difesa, senza fare debito comune, malgrado i solenni avvertimenti di Mario Draghi, nel ruolo inedito di Cassandra degli erbivori.

Aggiornato il 28 marzo 2025 alle ore 11:43