Il crack Northvolt è un fallimento europeo

(…e non svedese)

La rivoluzione (verde) può attendere. I creditori no. In attesa di riarmarsi, l’Europa incassa un’altra bastonata sulle sue velleità geo economiche e commerciali. Il fallimento dell’(ex) gigante svedese della produzione di batterie elettriche Northvolt è una sconfitta per l’industria europea del settore, che stava cercando disperatamente di affrancarsi dal mercato asiatico. E invece, un debito di otto miliardi di dollari ha sepolto ogni speranza di futuro per i 5.000 dipendenti (a settembre 2024 ne avevano già cacciati 1.600), e arrestato bruscamente il progetto europeo di fare da sé. Oggi solo il tre per cento delle batterie elettriche viene prodotto in Europa. L’obiettivo è (era) di salire al 25 per cento entro il 2030.

Tuttavia, come a voler parafrasare il detto “la vittoria ha molti padri, la sconfitta è sempre orfana”, alcuni media del nord Europa hanno commentato la notizia definendo il tonfo di Northvolt uno dei più grossi insuccessi della storia contemporanea della Svezia, tralasciando ovviamente la portata ben più ampia, che è invece tutta a livello Ue, del fallimento. Come a dire: la vittoria, quando c’è, è solo europea, la sconfitta è sempre a livello nazionale. In questo caso, però, considerando i due principali azionisti, Volkswagen da una parte e Goldman Sachs dall’altra, il flop è decisamente globale. Lo scorso novembre, l’azienda ha presentato istanza di fallimento, nel tentativo di trovare nuovi investitori che potessero stabilizzare la situazione e frenare i debiti. Gli ambienti accademici e del settore hanno “incassato” bene il colpo. Il fallimento di Northvolt tutto sommato, visto in che condizioni versava l’azienda, non è una sorpresa. Invece di scoraggiarsi, si fa notare, bisogna piuttosto chiedersi cosa non ha funzionato.

La sostenibilità, in un comparto sensibile come le batterie elettriche, non deve limitarsi a costruire una linea di produzione e avere un prototipo: bisogna poi assicurarsi di produrre il volume richiesto dal cliente. Il problema, infatti, è che Northvolt non è riuscita a soddisfare la crescente domanda di clienti di primissimo rango come Volkswagen e Bmw, che alla fine hanno perso la pazienza, messi alle strette dalla concorrenza asiatica che produce batterie più economiche. I due marchi tedeschi, indispettiti dall’inefficienza svedese si sono allora dirottati su progetti innovativi come quello francese della Vallée de la Batterie, sviluppato nell’Hauts de France. Con cinque mega-aziende operative o in fase di sviluppo, la scommessa è di creare fino a 25mila posti di lavoro.

La realtà è che l’Europa, in ordine rigorosamente sparso, si è mossa sul mercato delle batterie elettriche con 10 anni di ritardo rispetto alla concorrenza cinese e coreana. Il ritardo tecnologico è evidente. Nel 2023 la Corte dei Conti Ue ha lanciato l’allarme: l’Unione europea, scriveva in un rapporto, rischia di non riuscire a diventare una potenza mondiale nel settore. L’alternativa sarebbe la dipendenza dalle importazioni di batterie o veicoli elettrici, a scapito dell’industria automobilistica europea e dei suoi posti di lavoro. Le batterie, però, ammoniva la Corte, non devono diventare il nuovo gas naturale dell’Europa, e occorre, quindi, evitare di ritrovarci nella stessa situazione di dipendenza, poiché da questo dipende la sua sovranità economica.

L’altro problema, però, è che il trasferimento della produzione di batterie in Europa, rischia di far schizzare il prezzo delle auto elettriche. È davvero necessaria, si domandano gli esperti, questa rilocalizzazione, considerando quanto sarà difficile colmare il divario tecnologico con la Cina? È evidente che una batterie made in Ue costerebbe molto di più rispetto a quelle asiatiche, perché le differenze riguardano il costo della manodopera, il prezzo dell’energia, dei rottami metallici e dei materiali. La differenza rispetto ai concorrenti, sostengono per esempio alla VUB, (Vrije Universiteit Brussel, l’università bruxellese di lingua nederlandofona) potrebbe farla quell’innovazione capace, un giorno, di sfornare batterie che consumano meno energia e hanno una durata maggiore rispetto a quelle asiatiche.

La vera alternativa, tuttavia, è legata alla possibilità di ridurre non solo le dimensioni ma anche il numero dei veicoli elettrici. L’attuale difficoltà di competere con il costo delle batterie cinesi è legata anche alla strategia dei produttori di auto elettriche, che inizialmente hanno puntato su modelli di lusso o di grandi dimensioni, che richiedevano batterie anch’esse piuttosto pregiate e quindi più costose. Strategia che funziona fino a un certo punto, si osserva, quando c’è concorrenza e la necessità di trasformare rapidamente la mobilità verso veicoli più economici che siano in diretta concorrenza con i prodotti cinesi. Il dato interessante, però, è che in un serbatoio di pensiero come la libera università di Bruxelles stia maturando non tanto l’idea di sostituire le auto a benzina con quelle ecologiche, ma la necessità di ridurre il bisogno anche degli stessi veicoli elettrici, che divorano materie prime, a cominciare proprio dalla fabbricazione di batterie.

L’imperativo nuovo sembra essere, allora: meno auto elettriche possibili e comunque di piccole dimensioni. Vera svolta verde o brutale ridimensionamento obbligato da ReArm Europe? Ubi maior

Aggiornato il 20 marzo 2025 alle ore 10:06