
La questione se la pace tra le nazioni sia realizzabile è molto complessa e la risposta è sia “si” che “no”. La natura umana è ambivalente è sia “buona” che “cattiva” e quindi è difficile dire aprioristicamente quale delle due prevarrà, possiamo solo affidarci alla probabilità per ciò che potrebbe accadere. E conseguentemente anche gli Stati non sono assolutamente “buoni” o “cattivi” e le loro scelte in politica sono guidate dal momento e dalla sensibilità, tutta umana, di chi in quel momento li guida. Come nella fisica quantistica, le relazioni internazionali sono incerte finché un’azione (come un negoziato) non definisce pace o conflitto.
Pensiamo alla guerra in Ucraina: finché non si concluderà un negoziato decisivo, la situazione rimane incerta, sospesa tra tregua e conflitto, come nel paradosso del “gatto di Schrödinger”. In questo esperimento mentale, un gatto in una scatola chiusa è contemporaneamente vivo e morto finché non lo si osserva. Allo stesso modo, nelle relazioni internazionali, l’esito – pace o guerra – resta indefinito finché un’azione concreta, come un accordo o un’escalation, non ne determina la direzione. Questo ci porta a considerare la pace non come una certezza, ma come una probabilità che si concretizza solo con l’osservazione e l’intervento umano.
La storia umana alterna momenti di pace a momenti di conflitto, e la percezione di questi eventi cambia a seconda di chi li osserva. Ad esempio, la Pax Romana fu un’epoca di stabilità per l’Impero Romano, ma si fondava sul dominio militare e sulla repressione di ogni dissenso. Allo stesso modo, la pace europea dopo il 1945, pur non essendo immune da tensioni locali, fu resa possibile da un equilibrio di potere tra le superpotenze e da istituzioni di natura volontaria come l’Unione Europea. Questo dimostra che la pace è spesso relativa: ciò che appare accettabile per alcuni può essere oppressivo per altri. La pace non è un concetto assoluto, ma si manifesta in forme diverse a seconda del contesto.
Gli esseri umani sono capaci di cooperazione, altruismo e dialogo, ma anche di egoismo, aggressività e conflitto. È impossibile prevedere con certezza quale aspetto prevarrà: ad esempio, la teoria della “pace democratica” di Michael W. Doyle sostiene che le democrazie tendono a evitare i conflitti armati, ma questa tendenza non è una regola ferrea: ci sono eccezioni e situazioni in cui le stesse entrano in conflitto, direttamente o indirettamente (vedi il caso della Guerra del Golfo in Iraq o quella in Afghanistan).
La natura umana, con la sua imprevedibilità, rende la pace una conquista fragile e mai definitiva, spesso dipende dai leader, che a loro volta sono influenzati dal momento storico e dalla loro sensibilità personale che è in molti casi ondivaga per la convinzione che si genera di poter trarre grandi vantaggi mutando posizione. È quello che ha fatto dire agli alleati anglo americani nella Seconda guerra mondiale che “gli italiani entrano in guerra da una parte e la finiscono dall'altra” e non è escluso che ciò avvenga ancora anche in tempi recenti, per quanto riguarda ad esempio l’Ucraina, visto il nuovo atteggiamento della Casa Bianca rispetto alla Russia.
Questo modus operandi rende la politica internazionale un terreno mutevole: un leader incline al dialogo può favorire la pace, mentre uno più aggressivo può spingere verso il conflitto. Pensiamo alla fine della Guerra Fredda: le decisioni di Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan, orientate alla distensione, hanno evitato un’escalation, dimostrando come la volontà umana possa plasmare il destino delle nazioni.
Un altro elemento cruciale è la pressione dell’opinione pubblica. Confessioni religiose, scuole di pensiero, movimenti e organizzazioni della società civile possono spingere i governi a privilegiare la pace, rendendo i leader più accondiscendenti agli accordi che agli scontri. Quando i cittadini chiedono cooperazione anziché conflitto la politica è incentivata a seguire questa strada anche per evidenti motivazioni di carattere elettorale.
La pace tra le nazioni è pertanto un processo dinamico. È il risultato di un equilibrio tra fattori come la diplomazia, l’interdipendenza economica, le istituzioni internazionali e una cultura del dialogo. Rimane un equilibrio delicato che può essere messo a rischio in ogni momento anche quando le condizioni sembrano “idilliache”. La Prima guerra mondiale, scoppiata nonostante un periodo di relativa pace in Europa, ci ricorda che anche condizioni favorevoli non garantiscono una permanente stabilità, possiamo pertanto solo stimare una “probabilità” di pace e mai una certezza.
Non sappiamo se prevarrà la cooperazione o il conflitto, ma possiamo lavorare per creare le condizioni che favoriscano la pace. La storia ci insegna che è un traguardo raggiungibile, anche se non definitivo, a patto di un impegno costante e di una vigilanza continua.
Come scrive però Kenneth Waltz in Teoria della politica internazionale: “La pace è mantenuta dall’equilibrio di potere” e pertanto essa non può essere ridotta a semplici accordi politici o economici, ma deve essere considerata da più punti di vista e deve anche essere il risultato della consapevolezza dell’interconnessione profonda tra gli Stati tenendo conto delle differenze tra di essi, che spesso vengono percepite come rigide e insormontabili ma poi si rivelano più fluide di quanto sembravano. Perché i popoli sono come parti di un tutto più grande, legate da relazioni profonde anche se apparentemente celate. Se si abbracciasse una visione olistica dell’umanità, le nazioni sarebbero indotte ad agire in modo cooperativo, consapevoli che le loro identità e i loro interessi sono intrecciati, e così come l’individualità emerge da interazioni quantistiche, la pace emerge da una comprensione più profonda delle relazioni reciproche a livello globale.
Tuttavia, la pace duratura è fragile perché gli esseri umani e le loro società sono mossi da interessi contrastanti: risorse, potere, ideologie, identità culturali o religiose. Essa, pertanto, non è solo l’assenza di conflitto, ma la capacità di gestirlo senza ricorrere alla violenza.
Le strategie per arrivare, non alla pace “perenne” che è impossibile da realizzare, ma ad una per così dire a “tempo” sono diverse e praticabili. Per esempio, la promozione di una cultura che esalti i valori della tolleranza e dell’apertura reciproca fin dalla scuola per ridurre il terreno da cui scaturisce l’odio. Per questo i programmi di scambi culturali studenteschi come l’Erasmus sono utili per far germogliare una generazione che ai massacri preferisce il dialogo. Così come il controllo degli armamenti: riducendo gli arsenali, soprattutto nucleari, abbassa il rischio di conflitti catastrofici. Accordi come il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) sono stati passi importanti nella direzione, non di una pace utopica totale, ma di una “a tempo indeterminato” con la riduzione dei conflitti e una gestione non violenta delle tensioni. Come afferma Immanuel Kant, nel suo saggio Per la pace perpetua essa: “Non è un vuoto ideale, ma un compito che deve essere affrontato passo dopo passo”. Da un altro punto di vista John Mearsheimer, nel suo libro The Tragedy of Great Power Politics, adotta un approccio più realista e sottolinea i limiti della cooperazione internazionale, egli afferma infatti che: “Gli Stati sono intrappolati in una competizione senza fine per il potere perché il sistema anarchico li costringe a massimizzare la loro sicurezza”.
In modo analogo, Hans Morgenthau, in Politics Among Nations, condivide questa visione pessimistica, dichiarando che “la politica internazionale, come tutta la politica, è una lotta per il potere”: un risultato pratico più che un ideale assoluto, e non può essere data per scontata.
Anche le nuove tecnologie possono favorire la concordia tra i popoli. La diplomazia digitale, come dimostrato dai vertici G20 del 2020 durante il Covid-19 che hanno portato a un impegno di 5 trilioni di dollari per l’economia globale e la cooperazione sanitaria, consente risposte rapide e coordinate evitando i ritardi che sarebbero derivati dalla logistica degli incontri tradizionali.
I social media possono essere potenti strumenti per la costruzione della pace, promuovendo il dialogo, aumentando la consapevolezza e mobilitando il sostegno alle iniziative per la fine dei conflitti. Tuttavia, possono anche essere utilizzati per incitare alla violenza e diffondere messaggi falsi per rompere le possibilità di arrivare alla tregua.
Al contempo non va sottovalutata la portata dell’Intelligenza artificiale nelle relazioni internazionali, perché potrebbe essere utilizzata per velocizzare i negoziati diplomatici, migliorare la sicurezza delle comunicazioni diplomatiche e ridefinire le interazioni tra stati e attori non statali. Integrando dati strutturati (ad esempio il numero di truppe) e non strutturati (ad esempio gli articoli di giornale) in un modello probabilistico potrebbe segnalare il rischio di conflitto.
Un esempio concreto è il Global database of events, language, and tone (Gdelt) che monitora le notizie trasmesse in tutto il mondo in oltre 100 lingue per monitorare tensioni globali in tempo reale, segnalando escalation, come quelle in Ucraina. L’ultima parola, sia chiaro, è sempre però dell’uomo con la sua curiosità, instabilità ed imprevedibilità.
Infatti la recente guerra in Ucraina ha dimostrato che Francis Fukuyama si sbagliava nel sostenere in The End of History and the Last Man che la fine della storia sarebbe arrivata nel momento in cui la democrazia liberale sarebbe diventata il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità, perché così non è stato e sono tornate come attori principali la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese che tutto sono tranne che una liberaldemocrazia e con cui bisogna tornare a fare i conti.
Come scrive Robert Keohane in After Hegemony anche se le: “Istituzioni internazionali possono facilitare la cooperazione tra stati riducendo i costi di transazione e creando aspettative di comportamento reciproco” non possono eliminare tutte le naturali pulsioni umane all’autodistruzione.
Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa occidentale evitò conflitti armati tra i suoi membri, un fatto straordinario considerate le guerre precedenti, grazie all’integrazione economica (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, poi Ue), alle alleanze militari (Nato), agli aiuti (Piano Marshall) e alla riconciliazione tra Francia e Germania ed i nemici di una volta divennero partner, oggi purtroppo questo sano equilibrio è messo fortemente in crisi a causa delle tensioni che nel continente si sono scatenate a seguito della guerra in Ucraina. Questo fatto però non dovrebbe scoraggiare “gli uomini di buona volontà” nel perseguire la pace anche perché, se limitate nel tempo e nello spazio, alcune iniziative resistono anche a tensioni forti e potenzialmente distruttive. Come gli accordi di Camp David del 1978 tra Egitto e Israele mediato dagli Stati Uniti, che posero fine alle ostilità tra le due nazioni. I negoziati sotto la guida del presidente statunitense Jimmy Carter, con concessioni territoriali (il Sinai fu restituito all’Egitto) e garanzie di sicurezza per Israele, si raggiunse la fine del conflitto armato.
Giuseppe Antonio Borgese, in Fondazioni della Repubblica Mondiale, sostiene che la pace richiede giustizia e un governo mondiale perché non è “l’assenza di guerra; è la presenza di giustizia” soggiacente ad un’idea di fratellanza universale. D’altronde più recentemente anche G. John G. Ikenberry, nel suo Liberal Leviathan: The Origins, Crisis, and Transformation of the American World Order sostiene che: “Un ordine internazionale stabile richiede egemonia benevola, non utopie universaliste”. Quindi il ruolo di un’autorità superiore, sia essa l’Onu o uno o più dei grandi attori globali, è assolutamente utile per porre termine ai massacri potendo esse negoziare da posizioni di forza così come le politiche “distensive” tra loro stesse per evitare le cosiddette guerre a bassa intensità e per ridurre gli arsenali più letali. Così la distensione Usa-Urss (1985-1991) ridusse le testate nucleari da 70.000 a 13.000. E Il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp, 1968) ha limitato i paesi nucleari. Così gli accordi Start (1991-2010) hanno tagliato le testate Usa-Russia da 23.000 a circa 3.800 ciascuna (dati 2023, Arms Control Association), con ispezioni reciproche circa 21.000 tra il 1994 e il 2021. Purtroppo, il ritiro della Russia dal New Start nel 2023 minaccia questi progressi, richiedendo negoziati urgenti, che speriamo possano essere ripresi al più presto.
Un altro elemento da considerare è il mercato globale delle armi leggere (5 milioni di fucili prodotti annualmente) alimenta guerre civili sparse in tutto il globo anche se il Trattato sul Commercio delle Armi del 2014 regola 110 stati, che però senza Cina e Russia è un’anatra zoppa. Una convenzione universale con sanzioni potrebbe ridurre il flusso verso zone di conflitto, per esempio, in Yemen dove sono cadute 15 milioni di persone in crisi umanitaria.
Ma il disarmo non dovrebbe essere solo tecnico, ma soprattutto politico perché convincere i governi a rinunciare all’incremento dei propri arsenali richiede fiducia reciproca e accordi vincolanti, perché purtroppo, come sottolinea Thomas Schelling in The Strategy of Conflict “la deterrenza è un’arte di negoziazione” a cui gli stati non sembrano volere rinunciare.
Nota Hedley Bull in The Anarchical Society: “L’ordine internazionale non è incompatibile con l’anarchia; può emergere da norme e istituzioni condivise tra stati” e quindi la pace tra le nazioni può essere considerata un “traguardo probabilistico” che richiede un impegno costante e consapevole per gestire le tensioni in modo costruttivo. La pace “raggiungibile” non è uno stato permanente, ma un processo temporaneo di gestione della competizione senza l’uso della violenza e come scrive Henry Kissinger in Diplomacy “non può essere mantenuta solo con la forza; deve essere sostenuta dalla volontà di compromesso e dalla comprensione reciproca”.
Immaginiamo per esempio che, se Donald Trump e Vladimir Putin firmassero un nuovo accordo di non proliferazione delle armi nucleari dopo la fine della crisi Ucraina, le implicazioni positive per la sicurezza globale sarebbero significative in un momento cruciale per la storia dell’umanità includendo anche le armi nucleari tattiche. Potrebbe anche essere una spinta a partecipare per quegli Stati, come la Cina, che hanno finora rifiutato di aderire a questo tipo di accordi, per non dire che sarebbe l’applicazione del Salmo 34:14 “Cerca la pace e perseguila” visto l’enfasi che sia il presidente Donald Trump che Vladimir Putin danno alle radici cristiane dei loro popoli.
E allora tutti coloro che fino ad oggi hanno invocato il riarmo come mezzo per prevenire le crisi internazionali in nome di una utopistica ed irrealizzabile “giustizia” o per la necessità di proteggersi da un nemico che si aspetta come Drogo nella fortezza Bastiani ne Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, cosa si inventerebbero per costringerci ad accettare l’idea della guerra inevitabile e permanente?
Allora è meglio, come riconosceva Winston Churchill, un mondo diviso (temporaneamente) che un mondo distrutto (definitivamente): il primo si potrà, prima o poi, riunire, il secondo non si potrà ricostruire (almeno per come lo conosciamo oggi).
Aggiornato il 13 marzo 2025 alle ore 11:32