
Una voce spesso dimenticata del Memorandum di Budapest, (trattato firmato, 30 anni fa, anche su sollecitazione degli Stati Uniti, che chiedevano alla Russia di farsi carico dell’arsenale nucleare dispiegato in Ucraina per timore che finisse in mani incontrollate) era l’impegno delle parti, non solo a garantire l’indipendenza di Kiev, ma anche a non interferire nella sua vita politica. Proprio da quella data inizia, invece, il contrario: fin dell’elezione del secondo presidente (per due mandati) ucraino Leonid Kučma, prima corteggiato, poi ostacolato da Washington. Vedi il suo ondivago carteggio con l’ambasciatore di Obama, John F. Tefft. Poi la rivoluzione della dignità, quella della piazza di Maidan contro Viktor Janukovyč (con l’accusa standard della corruzione, in un Paese in cui, fino ad oggi, sono corrotti quasi tutti) dove misteriosi cecchini sparavano sulle forze dell’ordine che cercavano di sedare i disordini. Mentre, la rappresentante dello Us State department, Victoria Nuland, distribuiva biscottini ai manifestanti in piazza. La stessa funzionaria che più tardi sarebbe stata sorpresa, in una intercettazione mai smentita con l’ambasciatore Usa a Kiev, a scegliere i futuri leader del governo e a mandare a “farsi fottere” (sic!) l’Unione europea, che pretendeva, come oggi, di aver voce in capitolo.
Un episodio sintomatico di quanto poco conti, Bruxelles, sul piano geopolitico. Era stata innescata una vera e propria guerra civile. Al culmine della tensione, nel 2014, la strage nel rogo (“per autocombustione”, secondo il governo, ironizzavano, dalla clandestinità, le opposizioni) di decine di civili filorussi, assediati nella casa del sindacato a Odessa, ad opera della falange nazionalista Pravij Sector. Formazione, ancora oggi assai influente sulla pressione di continuare la guerra. E arriviamo a Volodymyr Zelensky. Quando fu eletto alla presidenza – oggi con mandato scaduto ma, ancora al potere, per autoproclamata prorogatio – aveva nella sua agenda elettorale due grandi promesse: la lotta alla corruzione degli oligarchi e la pacificazione degli Oblast dell’Est, in rivolta contro la forzata derussificazione in atto. Entrambe le promesse, ampiamente disattese. L’opaca gestione degli aiuti occidentali, i furti nelle forniture belliche, le stecche per sfuggire alla leva militare, gli improvvisi e sospetti arricchimenti, sono testimonianza quotidiana della perdurante diffusa corruzione.
Le azioni contro le proteste delle minoranze etniche russe (maggioranza negli Oblast dell’Est), la modifica costituzionale per umiliarne l’identità, la mano libera alle milizie per reprimere nel sangue la rivolta degli Oblast secessionisti (l’autoderminazione che Kiev giustamente, reclama per se, non compete, evidentemente, all’Est ucraino). Fino a promuovere quelle truppe di miliziani tatuati con l’effigie nazista del Wolfsangel – responsabili dell’omicidio, a sangue freddo del nostro reporter Andrea Rocchelli – al rango di membri effettivi dell’esercito ucraino. E sulle promesse disattese fatte dagli Usa di non allargare la Nato a Est, che suscitarono anche la tardiva protesta dell’ex presidente russo Mihail Gorbacëv, bisognerebbe aprire un capitolo a parte. Di questo e dei rischi per la pace in Europa nel caso dell’allargamento dell’alleanza alle porte della Russia, fino al volgere del secolo, ne erano coscienti proprio tutti, a cominciare da Joe Biden, che poi rinnegherà il suo stesso caveat. Sul rischio che, Kiev nella Nato, potesse diventare la nuova Danzica ne scriveva mio padre, giurista, Us Medal of Liberty, già 20 anni fa.
Oggi ci si stupisce che qualcuno, dall’altro lato dell’Atlantico, abbia finalmente ritrovato l’onestà di riconoscere che questa guerra ha molti padri.
Aggiornato il 21 febbraio 2025 alle ore 10:43