Ritorno al nulla
Oggi, il Pianeta Gaza assomiglia più a Selene che alla Terra. Eppure il Ritorno alla disperata di gazawi al quale stiamo assistendo è un atto politico e di resilienza di tutto un popolo, che teme di vedere di nuovo i coloni israeliani reinsediarsi nella Striscia, dopo che ne erano stati smobilitati da Ariel Sharon nel 2005. Li ha allarmati soprattutto Donald Trump, che da esperto immobiliarista (come il suo inviato in Palestina, Steve Witkoff) ha paragonato Gaza a un sito di demolizioni, una sorta di ground zero, che occorre mantenere sgombero per avviare le susseguenti opere di ricostruzione. Secondo Trump, gli ex residenti dovrebbero essere temporaneamente accolti per solidarietà nei Paesi frontalieri (Egitto e Giordania), per un tempo sufficiente alla ricostruzione, che avrebbe una durata minima di cinque/quindici anni. Prospettiva quest’ultima che per i fondamentalisti di Hamas equivale a una Nabka 2.0 e alla perdita totale del loro potere a Gaza. Anche se, come si vedrà, non sarà servita a nulla quella loro regia cinica, che ha messo teatralmente in scena la liberazione degli ostaggi israeliani perché, comunque vada, avranno solo macerie sulle quali regnare, dopo aver inutilmente sacrificato il loro popolo. Ed è proprio a causa della loro violenza politico-militare che Egitto e Giordania si rifiutano di ospitare gli sfollati di Gaza, temendo il ritorno dei Fratelli musulmani di Hamas.
Memori, gli uni e gli altri, di quanto avvenuto, rispettivamente, nel 2013, con il colpo di stato di Abdel al-Sisi che destituì il presidente fondamentalista Mohamed Morsi; mentre, in precedenza, nel 1970, furono qualche migliaio le vittime palestinesi del settembre nero, quando il re hascemita Hussein di Giordania fece intervenire duramente l’esercito, per impedire il rovesciamento della monarchia da parte delle milizie dell’Olp. In questo inizio 2025, chi ritorna a Gaza deve mettere in conto di vivere per molto tempo in tendopoli di fortuna, pur di dimostrare che l’occupazione militare israeliana del 2024 ha fallito il suo principale obiettivo di provocare una nuova deportazione di massa dei palestinesi. Dal punto di vista pratico, tuttavia, per l’entità dei danni subiti dagli edifici, la sfida della ricostruzione a Gaza è simile a quella di Dresda, rasa al suolo dagli alleati nel 1945. Questo perché quasi tutti i palestinesi di ritorno alle loro case distrutte non hanno nemmeno lo spazio sufficiente per piantare le tende in mezzo ai detriti. Chiunque voglia resistere in un luogo tanto inospitale, dovrà poi fare a meno dell’acqua potabile e dell’elettricità, in quanto le relative reti di distribuzione sono andate completamente distrutte.
A nord di Gaza, in località Jabalia, ad esempio, stando ai rilevamenti satellitari, ben il 75 per cento degli edifici sono stati rasi al suolo o seriamente danneggiati. Mentre prima della guerra Jabalia era un centro ad alta intensità abitativa, con scuole, negozi e moschee. Oggi, stando alle testimonianze, la stessa cittadina è simile a un “paesaggio lunare”, ingombro di detriti di cemento e ferro, e inabitabile al 100 per cento. A Gaza gli scheletri degli edifici sono circondati da montagne di macerie e schegge di vetro, con cascami di masserizie e suppellettili irrecuperabili, mentre la pioggia ha ridotto in fango gli strati di polvere che ricoprono le strade. Dal punto di vista bellico, i bombardamenti a tappeto israeliani si sono resi necessari per rendere inagibili molti chilometri di tunnel, in cui Hamas aveva nascosto armi e infrastrutture, posizionandovi le sue unità migliori, dotate di armi leggere, lanciamissili anticarro e artiglieria. Di conseguenza, interi isolati civili di Gaza Strip erano stati riconvertiti dai terroristi in veri e propri fortilizi, utilizzati per tendere imboscate, o adibiti a centri di comando e di controllo, depositi di armi, tunnel di combattimento, posti di osservazione, posizioni di tiro, e così via. Per di più le abitazioni inagibili erano disseminate di trappole esplosive e le strade ridotte a percorsi minati: intervenire in quel contesto soltanto con le truppe di terra, avrebbe significato per l’esercito israeliano mettere in conto di dover subire migliaia di perdite, per venire a capo della resistenza di Hamas.
Dal punto di vista della ricostruzione, poi, sarà difficile in pratica ottenere la collaborazione e i finanziamenti dalle monarchie del Golfo, senza una reale prospettiva per la creazione di un futuro Stato palestinese e una soluzione concordata per un nuovo governo della Striscia. In merito, Israele ha già posto la pregiudiziale dell’esclusione di Hamas e delle altre formazioni radicali dal futuro esecutivo. Questa pregiudiziale potrebbe fare comodo agli Stati arabi mediorientali che verranno coinvolti nel processo di pacificazione della regione, cui Trump è particolarmente interessato. Sono soprattutto gli Emirati Arabi a fare pressione su Washington e Tel Aviv, per mettere al riparo dalle critiche interne gli Accordi di Abramo, sopravvissuti finora alla guerra israeliana contro Hamas. L’invio di Witkoff è una dimostrazione pratica, da parte della nuova Amministrazione americana, di volersi fare carico delle preoccupazione dell’alleato israeliano in materia di sicurezza alle sue frontiere, in modo che non abbia mai più a ripetersi un 7 Ottobre.
A proposito del progetto sionista sul ritorno alla “terra promessa” (gli inglesi nel 1917 sottoscrissero quel progetto con la famigerata “Lettera di Intenti di Balfour”, di cui si suggerisce la lettura integrale), nel 1930 Sigmund Freud così rispondeva a Chaim Koffler, che cercava consensi e finanziamenti per gli insediamenti ebraici in Palestina: “Non posso fare quello che Lei desidera. Il mio sobrio giudizio sul sionismo non me lo permette. Io non penso che la Palestina potrà mai diventare uno Stato ebraico e che il mondo cristiano e il mondo islamico potranno mai essere disposti ad avere i loro luoghi sacri sotto il controllo ebraico. Mi sarebbe parso più sensato fondare una patria ebraica in una terra meno gravata di storia”. La lettera di Freud fu pubblicata solo nel 1954 in ebraico e soltanto nel 1999 in inglese sul Los Angeles Psychoanalytical Bulletin. Analoga, irrisolta questione riguarda la risoluzione Onu numero 181 del 1947, in cui alla Sezione D. si parla di “federalismo”, in materia di economia e di risorse naturali a proposito dei due Stati. Perché non la si cita (e non si tenta di applicarla) mai?
Aggiornato il 04 febbraio 2025 alle ore 09:48