La Libia divisa punta solo sul petrolio

Anche se oggi la Libia è sotto le attenzioni dei media per il caso, poco rilevante, del generale tripolino Njeem Osama Al-Masri, rispedito in patria dall’Italia. Il Paese nord africano attrae maggiori attenzioni, magari meno esaltate perché strategicamente più interessanti, per la questione del mercato del petrolio. Dal 2011 il settore energetico libico è, come il Paese, caratterizzato dalla frammentazione. Lo Stato ha il suo territorio diviso tra Bengasi, Tripoli e gruppi armati vaganti, ma localizzati soprattutto nella regione del Fezzan e sui confini con Cirenaica e Tripolitania. Inoltre l’instabilità politica è favorita dal potente fascino della corruzione diffusa nell’élite del Paese. Nel 2020 fu firmato il cessate il fuoco tra il governo di Tripoli, sostenuto da una variegata platea di milizie, e l’autoproclamato, ma riconosciuto, Lna, Esercito nazionale libico, con sede a Bengasi e guidato dal maresciallo Khalifa Haftar. Un accordo che ha aperto la strada a una relativa stabilità circa la sicurezza, ma che non ha arginato le lotte politiche ed economiche derivate dal business sulla vendita di petrolio e gas. 

A Tripoli sabato 18 e domenica 19 gennaio, si è svolta la terza edizione del summit libico su energia ed economia. Il capo del governo libico Abdel Hamid Dbeibah, posizionato nel suo ruolo dall’Occidente, e riconosciuto dalla comunità internazionale, ha fatto gli onori di casa entrando per primo nell’auditorium del Tripoli convention center, una struttura moderna, composta da grandi vetrate, che dovrebbe rappresentare una Libia aperta e accogliente. Qui, i capi di Stato ed attori economici internazionali si sono confrontati programmando progetti. Erano presenti al summit uomini di affari dell'industria del petrolio e del gas, come i rappresentanti dell'italiana Eni, della francese Total Energies, e della britannica BP, oltre a politici dei rispettivi Stati. Dbeibah ha aperto con un discorso sulla necessità di lanciare nuove campagne esplorative volte ad aumentare le riserve petrolifere. La Libia, che compete con la Nigeria il primato di Paese produttore di petrolio in Africa, nella sua complessità, secondo un’analisi dell’Eia, American energy information agency, occupa il 42 per cento delle riserve verificate dell’Africa, circa 48 miliardi di barili, ma è noto che molti punti di estrazione petrolifera africani non sono censiti, quindi i dati reali sugli idrocarburi estratti e stoccati sono maggiori.

Durante il summit, il capo del Governo della Tripolitania ha ribadito la volontà di aumentare la produzione petrolifera. Intanto a gennaio è passata da 1,2 milioni di barili di petrolio al giorno a 1,4 milioni, comunque inferiore all’1,7 milioni che venivano prodotti nel 2011 quando governava tutta la Libia il “rimpianto” Muammar Gheddafi. Per fare questo la Libia nel suo complesso dovrebbe svecchiare gli obsoleti impianti e utilizzare le ultime tecnologie estrattive, e il summit ha evidenziato questa criticità, ma intanto le autorità tripoline hanno annunciato che entro fine 2025 favoriranno nuove concessioni e licenze per lo sfruttamento di petrolio e gas.

Ma quello che è emerso da questo incontro è che oltre alle apparenze di due giorni di ostentata modernità ed organizzazione, farcite da conferenzieri proiettati verso il business petrolifero, e dalla vicinanza con l’Europa, la realtà è che esistono fazioni rivali che sfruttano con pratiche fraudolente il settore petrolifero, tramite contatti trasversali e ambigui, lontani da una pianificazione trasparente e globale che possa fare accedere con chiarezza al mercato degli idrocarburi. Da qui le perplessità di molti investitori che preferirebbero avere a che fare con un sistema quantomeno affidabile e coeso.

Tuttavia la criticità maggiore si è riscontrata nel “grande assente”, o meglio nella scarsa presenza delle autorità della Cirenaica. Un disimpegno politico di peso, in quanto Bengasi controlla la maggior parte dei giacimenti petroliferi del Paese, e che li usa regolarmente come strumento per fare pressione su Tripoli. Ricordo la questione della Banca centrale libica, organo ancora unico del Paese, dove Dbeibah ha tentato di sostituire lo storico governatore Sadiq Al-Kebir, operazione fallita grazie alla “pressione petrolifera” esercitata da Haftar. In breve, il tentativo ha comportato un rialzo del prezzo del Brent del 3,2 per cento e quando Bengasi, due mesi dopo, ha sbloccato il mercato petrolifero, dopo avere imposto il nuovo direttore, Naji Mohamed Issa Belqasem, nomina accettata da Dbeibah, si è constatato che la “chiusura dei rubinetti” è costata al tesoro libico circa 2,6 miliardi di dollari.

Durante questa crisi gli Haftar hanno venduto milioni di barili di petrolio alla compagnia petrolifera Arkeno, di proprietà di Saddam Haftar, figlio del maresciallo. Secondo il sito statunitense Oil Price, l’operazione che è stata effettuata al di fuori dei canali ufficiali, avrebbe fruttato alla società più di 400 milioni di dollari. Un giro di affari che il clan Haftar frequenta spesso, infatti nell’aprile 2024 la polizia canadese ha accusato due ex dipendenti delle Nazioni unite di vendere attrezzature militari in Libia, scambiando droni militari con petrolio greggio, il tutto intermediato da cinesi. Forse sarebbe stato più costruttivo fare il summit a Bengasi invece che a Tripoli, visto che senza sforzi concreti per riformare questo sistema e garantire la trasparenza, il vertice tripolino rischia di essere stato più che un incontro internazionale un semplice esercizio di comunicazione. Anche considerando che Belkacem Haftar, figlio del maresciallo Khalifa Haftar, è direttore generale del Fondo per lo sviluppo e la ricostruzione del Libano (un affare enorme), interloquisce ottimamente con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ed è ben considerato negli ambiti internazionali.

Aggiornato il 27 gennaio 2025 alle ore 18:19