J.D. Vance, neoeletto vicepresidente degli Stati Uniti, ha trascorso l’ultima notte di campagna elettorale a Flint, cittadina di un Michigan indicato come Stato in bilico da sondaggisti confusi, dove i repubblicani hanno invece riportato una vittoria storica e schiacciante. Un tempo soprannominata Vehicle City, Flint è il ritratto del sogno americano trasformatosi in incubo. Tristemente balzata alle cronache nel 2014 per la crisi ambientale e sanitaria dell’acqua potabile contaminata da piombo e legionella, la città è passata, nell’arco di un paio di decenni, dal detenere il reddito medio più alto di tutto il Michigan al registrare uno dei più alti tassi di povertà, criminalità e omicidi della Nazione, con circa metà dei residenti in condizioni di indigenza. Il tutto a causa dello smantellamento degli impianti produttivi di General Motors. Flint è un luogo legato per numerosi aspetti a Middletown, in Ohio, dove Vance è nato e cresciuto: cittadine separate da appena quattro ore d’auto, entrambe parte del midwest in cui l’acciaio (da cui l’appellativo di Steel belt) ha lasciato il posto alla ruggine, in quel deserto post-industriale che ora è tristemente noto come Rust belt.
Un tempo fiorenti, Middletown e Flint hanno assistito, impotenti, al triste destino di quei core business intrecciati che ne rappresentavano la ragion d’essere: l’acciaio prodotto dalla prima e lavorato dall’automotive della seconda, entrambi interessati da processi di delocalizzazione irreversibili, soprattutto in terra cinese. In una spirale recessiva analoga, la chiusura di industrie e miniere ha sancito la distruzione di interi tessuti produttivi e sociali, con tassi di disoccupazione e, conseguentemente, di povertà, degrado, crimine e tossicodipendenza che hanno pochi eguali in terra americana. L’erosione del gettito fiscale, chiaramente causata dal crollo occupazionale e dallo spopolamento dei centri abitati in favore di luoghi più appetibili, ha comportato l’inevitabile decadenza dei servizi pubblici erogati dai comuni, con difficoltà persino a stanziare un budget sufficiente al funzionamento dei dipartimenti di polizia.
È questa la ragione della presenza e del successo elettorale di un personaggio come Vance a Flint, cresciuto da un nonno impiegato proprio nell’acciaieria Cleveland-Cliffs di Middletown: un lavoro che ha salvato il senatore uscente dell’Ohio da un’infanzia di povertà assoluta e ha permesso ai nonni di crescere lui e sua sorella, altrimenti costretti a una vita di stenti con una madre tossicodipendente e un padre biologico che ha tagliato la corda quando J.D. aveva sei anni. Tuttavia, dal prossimo 20 gennaio, con l’insediamento nella West Wing della Casa Bianca, l’integrità e la genuinità che hanno consentito a Vance di godere di un credito senza precedenti presso le classi popolari dovranno dimostrare di poter sostenere e superare la prova di governo: un cammino distinto dalle insidie che presenta la realpolitik. Di fatti, se quell’Elegia americana che ha portato Vance alla ribalta come scrittore prima ancora che come uomo politico è un ritratto encomiabile di “una cultura in crisi” (per citarne il sottotitolo), quello delle ricette economiche per riconvertire e rivitalizzare la “cintura di ruggine” del midwest e dell’Appalachia è un libro ancora tutto da scrivere.
Dopotutto, Vance è il vice di un presidente che, in campagna elettorale, ha puntualmente glissato sulle politiche con cui intende concretamente rigenerare il tessuto produttivo della macro-regione più in crisi del Paese e che, nel corso del precedente mandato alla Casa Bianca, ha approcciato la questione soltanto imponendo dazi inefficaci alle importazioni di acciaio cinese e alleviando la pressione fiscale sulle imprese – mossa, quest’ultima, lodevole, ma che non scioglie il nodo di una produzione che non è più economicamente conveniente tenere entro i confini nazionali. L’amministrazione di Joe Biden e Kamala Harris, dal canto suo, ha premuto ulteriormente l’acceleratore sulle misure protezionistiche introdotte dal precedessore, abbandonando tuttavia la strada delle riforme fiscali in favore di un approccio dirigista e keynesiano, con manovre da 1.6 trilioni di dollari (sì, sono un miliardo di miliardi) improntate soprattutto alla transizione ecologica, alle fonti d’energia alternative e alla riduzione delle emissioni di Co2 tramite programmi di sussidi a pioggia. Su tutti l’Inflation Reduction Act e l’Infrastructure Investment and Jobs Act, entrambi successori ideali del green new deal, stessa antifona con cui già Barack Obama credeva, in modo analogo, di poter risollevare le sorti di quell’angolo d’America a colpi di dazi su eolico e fotovoltaico cinesi e debito pubblico.
Il fallimento dell’approccio dem, d’altronde, è certificato dal fragoroso tonfo elettorale riportato in ciascuno degli Stati in questione, espressione di un popolo che ha saputo guardare oltre la coltre di fumo della mangiatoia pubblica. Un cattivo piano non è meglio di nessun piano, soprattutto se è a spese dei contribuenti e se finanzia business non economicamente sostenibili, perché le politiche industriali non sono aste a rilancio in cui preoccuparsi solo di stanziare quantità fantasmagoriche di spesa pubblica – illudendosi di far colpo sugli elettori – a discapito della sua qualità. A tracciare i fiumi di fondi federali stanziati da Biden ci ha provato il quotidiano Politico, scoprendo che una grossa fetta del totale non è stata ancora – né mai sarà – spesa, soprattutto a fronte della vittoria di Trump, che intende abolire il “green new scam” (sic.) non appena insediatosi e restituire al Governo tutti i fondi non ancora spesi. Molte imprese, infatti, riflettono sulla rinuncia ai sussidi, perché vincolati all’implementazione di pratiche spesso insostenibili dal punto di vista commerciale. Tra queste – ironia della sorte – compare proprio la siderurgica Cleveland-Cliffs che impiegava il nonno di Vance, il cui amministratore delegato ha dichiarato lo scorso settembre di voler accettare un finanziamento di oltre 500 milioni di dollari per la produzione di acciaio “verde” (che impiega gas naturale e idrogeno al posto del carbone) solo dopo lunga riflessione, perché consapevole che sarà estremamente difficile trovare acquirenti disposti a comprare acciaio proposto a un prezzo fuori mercato, dati i maggiori costi di produzione, solo per via del suo minore impatto ambientale.
In altri casi più plateali, come quello dell’azienda automobilistica Rivian, vi è il rischio che le imprese sussidiate (trattandosi spesso di start-up) dichiarino bancarotta prima ancora di riuscire a impiegare il finanziamento accordato. Con Trump che scalpita per rigettare i programmi di spesa del suo predecessore, poco importa che la Cleveland-Cliffs abbia accettato il sussidio: l’azienda, con i suoi circa 2.500 impiegati nella città natale di Vance, continuerà, fin quando potrà, a produrre un acciaio non competitivo. Sul suo futuro, tuttavia, il prossimo vicepresidente non si è ancora espresso.
Nessuna delle amministrazioni che si sono avvicendate alla Casa Bianca negli ultimi decenni ha saputo introdurre una concreta ed efficace politica per la riconversione industriale della Rust belt, pagandone poi lo scotto elettorale. Trump e Vance non fanno eccezione, e la rielezione per uno storico terzo mandato del tycoon newyorkese passa dalla capacità di spezzare la lunga catena della cattiva politica che non ha saputo ascoltare il grido d’aiuto di un’America disperata.
Aggiornato il 11 novembre 2024 alle ore 09:30