Elezioni Iran: una svolta moderata?

Il ballottaggio del 5 luglio in Iran per eleggere il nuovo presidente, dopo la morte improvvisa di Ebrahim Raisi, avvenuta il 19 maggio, ha dato un responso non scontato. Il secondo turno delle elezioni tra i due candidati che avevano raggiunto la percentuale più alta, il riformatore Masoud Pezeshkian e il radicale ultraconservatore Saïd Jalili, si è svolto nel quadro di un forte astensionismo; i risultati ufficiali dello spoglio delle schede elettorali ha decretato Pezeshkian vincitore con 16,38 milioni di consensi, contro i 13,5 milioni di Jalili. L’affluenza al voto, anche se piuttosto bassa, meno del cinquanta per cento – (49,8 per cento) – è maggiore del primo turno quando si era attestata intorno al 40 per cento.

Queste elezioni hanno attratto le attenzioni delle diplomazie mondiali visto il ruolo che l’Iran, la mezzaluna sciita, si è ritagliato nello scenario internazionale. Al centro di diverse crisi geopolitiche, è il primo fornitore di droni tattici alla Russia nello sforzo bellico contro l’Ucraina e primo concreto sostenitore di Hamas e fautore della distruzione di Israele. Inoltre, è un affannato costruttore del proprio programma nucleare, con l’aspirazione di ottenere l’ordigno atomico; ma anche oppositore dei Paesi occidentali, in particolare degli Stati Uniti, suo principale nemico. L’Iran è anche un nuovo membro del colosso politico-economico Brics+, dal primo gennaio 2024, oltre a essere uno dei pesi massimi del Medio Oriente dove è alla ricerca di una visibilità e un riconoscimento, a marchio sciita, nel contesto del mondo islamico sunnita.

Comunque, queste elezioni si sono celebrate in una condizione di forte malcontento popolare, dovuto allo stato dell’economia martoriata dalle sanzioni internazionali, ma anche dal clima di repressione accentuato dalle proteste seguite all’uccisione della giovane Mahsa Amini, nel settembre del 2022. Il sessantanovenne Pezeshkian, sostenuto da due ex presidenti, il riformista Mohammad Khatami e il moderato Hassan Rouhani, ha ottenuto il 53,7 per cento dei voti, sventolando la bandiera di un Iran più aperto verso l’Occidente. Jalili, cinquantotto anni, supportato dal presidente conservatore del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, che al primo turno conseguì il 13,8 per cento dei voti, ha ottenuto il 44,3 per cento, ostentando, all’opposto, le sue posizioni inflessibili verso il distacco dalle potenze occidentali.

Insomma, due collocazioni agli antipodi, in una visione geostrategica complessa ma soprattutto già abbondantemente avviata sulla strada dell’ultra-conservatorismo e dell’anti-occidentalismo. Tuttavia, il moderato Pezeshkian ha affermato, dai canali televisivi pubblici, la sua assoluta fedeltà alla Repubblica islamica, promettendo che lavorerà per tessere relazioni costruttive sia con gli Stati uniti che con i Paesi europei, al fine di togliere l’Iran dall’isolamento. Ricordo che il neo-presidente, tra il 2007 e il 2013, fu il negoziatore della questione nucleare, e che Saïd Jalili fu il principale oppositore dell’accordo del 2015 tra l’Iran e le potenze mondiali, compresi gli Stati Uniti, che imponevano restrizioni all’attività nucleare iraniana, in cambio della riduzione delle sanzioni.

Al momento, i negoziati sul nucleare sono congelati a seguito del ritiro degli Usa dagli accordi; un disimpegno voluto nel 2018 dall’allora presidente Donald Trump, che reintrodusse severe sanzioni economiche a Teheran. Ciononostante, la questione nucleare iraniana è cruciale non solo per l’Iran, ma anche per gli equilibri geostrategici globali. È noto che il sistema di potere del Governo degli Ayatollah non dà capacità decisionali elevate al presidente della Repubblica islamica. Infatti, queste elezioni non dovrebbero avere ripercussioni importanti. Al presidente, a capo dell’Esecutivo, spetta il compito di applicare le principali linee politiche stabilite dalla Guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, che è il capo dello Stato.

È possibile che il trionfo di Pezeshkian porti verso l’adozione di una politica estera pragmatica, con un rilassamento delle tensioni con le grandi potenze occidentali tramite la riapertura di dialoghi sui negoziati ora in stallo, come il rilancio dell’accordo sul nucleare. Ma anche, a livello di politica interna, imboccando la via per migliorare le prospettive di liberalizzazione sociale e perseguire quel pluralismo politico soffocato in Iran. Detto ciò, lo scetticismo serpeggia tra gli iraniani circa la capacità di Pezeshkian di mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale, in quanto il neo-presidente ha dichiarato, pubblicamente, di non avere alcuna intenzione di confrontarsi con la potente casta iraniana composta dagli aguzzini della sicurezza e i mullah, “studiosi” dell’Islam.

Inoltre, la candidatura di Pezeshkian, unico moderato dei sei ammessi alla contesa elettorale, è stata approvata dal Consiglio dei guardiani, organismo costituzionale che esamina tutti i concorrenti e che opera sotto la bacchetta di Ali Khamenei. In realtà, il fatto di avere o meno in Iran un presidente moderato o ultra-conservatore è a livello di politica estera e interna poco rilevante, poiché le decisioni di valore strategico e consistenza sociale vengono prese dalla Guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, che continuerà a gestire l’Iran con modalità oltranziste. In un quadro che vede Israele come il cancro occidentale nel territorio musulmano. Citazione, questa, del 1979. Firmata, allora, dall’Ayatollah Ruhollah Khomeyni.

Aggiornato il 08 luglio 2024 alle ore 15:17