Israele-Usa: un divorzio che “non s’ha da fare”

L’evoluzione dei conflitti in atto non può che determinare anche il mutamento dei rapporti tra le nazioni direttamente o indirettamente coinvolte. Un segno significativo, in tale senso, è stato dato nel complesso quadro geostrategico della guerra tra Israele ed Hamas, quando gli Stati Uniti si sono astenuti, durante la votazione di lunedì 25 marzo all’Onu, per il cessate il fuoco a Gaza, dimostrando, forse, un nuovo percorso verso il cambiamento della “vecchia formula”. Una controversia come tante altre già vissute tra Usa e Israele? O una alleanza in bilico?

In molte occasioni, nei decenni passati, il Governo Usa ha dovuto inasprire i toni verso il Governo dello Stato di Israele, al fine di ricondurre il suo protetto nei margini di un difficile equilibrio diplomatico internazionale. La Casa Bianca si può ovviamente permettere tale atteggiamento, in quanto è il maggiore e determinante fornitore di aiuti militari, che da anni oltrepassano abbondantemente i tre miliardi di dollari all’anno. Infatti, generalmente Tel Aviv/Gerusalemme si è conformata a tali indicazioni. Allo stato attuale, pare che questo connubio non sia più così solido, delineando un forte cambiamento nelle relazioni in questo strategico binomio. Infatti, Benjamin Netanyahu in questa fase delicatissima della guerra con Hamas, e ai minimi storici del gradimento nazionale e internazionale, si sta opponendo alle indicazioni fatte pronunciare dal presidente Usa, Joe Biden, sia su ciò che prevede possa essere per Israele il futuro controllo di Gaza (sembra 15/20 per cento della Striscia di Gaza), sia per il prosieguo della guerra, soprattutto sulla “linea rossa geoponica” che è l’annunciata incursione di Rafah. Un delicato conflitto tra Netanyahu e Biden che è significativo circa il notevole disagio che, negli ultimi decenni, si è creato e che è diventato un “malessere cronico” tra le relazioni israelo-statunitensi. Va ricordato che Biden ha difeso il diritto di risposta di Israele, e si è dimostrato “consapevole!” del massacro perpetrato il 7 ottobre da Hamas. Infatti, i devastanti bombardamenti a Gaza e sulla Striscia sono possibili grazie alla sistematica fornitura da parte degli Stati Uniti di ordigni bellici necessari per un’intensa campagna di distruzione.

Nel quadro del passaggio da guerra globale a globalizzata, che tra le sue diversità vede l’inversione dei rapporti tra i morti civili e quelli militari, Hamas ha perso circa diecimila miliziani, mentre la popolazione civile palestinese – bambini, donne e anziani – conta oltre ventitremila morti (Israele parla di seicento suoi soldati deceduti); dati comunque da leggere, in quanto l’inesattezza dei decessi è direttamente legata alla approssimativa annotazione anagrafica e alla variabile presenza di abitanti nella Striscia. Inoltre, la città di Gaza è alla fame: oltre un milione di persone hanno trovato, per ora, un rifugio nella minacciata città di Rafah. Ed è proprio su Rafah che il braccio di ferro tra Netanyahu e Biden mostra la sua massima espressione di sforzi. Il presidente Usa spinge affinché Rafah venga risparmiata, mentre il capo del Governo israeliano va avanti con i suoi annunci sul “progetto occupazione”.

Usa e Israele sono fedelmente legati da almeno cinquanta anni – dagli anni Settanta circa – e da allora le varie Amministrazioni statunitensi raramente sono state in grado di far passare una risoluzione che non fosse indulgente nei confronti di Israele. Tuttavia, Biden da tempo tollera disprezzo e insulti da parte di Gerusalemme, dovendo fare fronte anche alla crescente indignazione internazionale suscitata dai martellanti bombardamenti su Gaza. Ma Washington/Biden, come un navigato marito votato alla “dogmatica” fedeltà a tutti costi, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per tre volte ha posto il suo famoso veto – il 18 ottobre, l’8 dicembre e il 20 febbraio – per riaffermare lo scudo diplomatico e incrollabile sostegno a Israele. Ora, il voto del 25 marzo traccia simbolicamente la fine di un’era che conduce gli Usa fuori dall’allineamento con Israele? Comunque, tra Washington e Gerusalemme si sono verificati periodici aumenti di nervosismo ed esasperazione, a causa dei comportamenti dello Stato ebraico a livello internazionale, ma soprattutto nei confronti dei palestinesi. Ricordo l’ultimo caso di una importante tensione durante la presidenza di Barack Obama (gennaio 2009/gennaio 2017), profondamente disprezzato da Netanyahu, che nel 2016, poco prima della fine del suo mandato, si è astenuto su una risoluzione che condannava l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Nel complesso, tolte rare eccezioni, almeno una cinquantina di veti sono stati fissati dagli Stati Uniti per proteggere nel tempo Israele, sia per ciò che concerne l’espansione coloniale, sia per i conflitti nella regione.

In pratica, questo “matrimonio”, che tratteggia una relazione tra un ancora dogmatico marito (Usa) e una indomita, esuberante coniuge (Israele) anche se mostra una coppia con segni di stanchezza, non “s’ha da rompere”. Quantomeno, per mantenere un difficile equilibrio di potere internazionale, ora sotto varie pressioni (Brics+), pena uno sbilanciamento geopolitico dai risvolti sicuramente terrificanti. Eppure, le manifestazioni del 31 marzo, per chiedere le dimissioni del Governo, hanno nuovamente sottolineato la volontà popolare di vedere la fine del fallimentare potere di Netanyahu e dei suoi alleati fondamentalisti religiosi, a favore di un nuovo Esecutivo su basi laiche, che possa negoziare.

Aggiornato il 03 aprile 2024 alle ore 09:28