Il Pil russo va alla guerra: le sanzioni spuntate

Pensavamo di piegare Vladimir Putin estromettendolo dallo Swift, il sistema dei pagamenti internazionali dominato dal dollaro? Allora, complimenti per non aver capito proprio nulla della Russia. Infatti, sorprendendo tutti gli illusi occidentali del dopo 24 febbraio 2022, il Pil russo è tornato a crescere, come se le sanzioni occidentali a tutto campo fossero acqua di fonte, buona da bere. Così come del resto si evince dagli ultimi dati del Fondo monetario internazionale (Imf) che pronostica per il 2024 una crescita del 2,6 per cento del Pil russo (superiore a quello della Germania!), correggendo di ben 1,5 punti in rialzo la sua stima precedente. Sarebbe bene, quindi, che oltre a fare un inutile quanto intempestivo mea culpa, si procedesse a un’ulteriore autocritica per capire sino in fondo le ragioni di questa straordinaria resilienza dell’economia russa. Il nostro fallimento ha molte colpe e non poche facce (spesso ipocrite e contraddittorie tra di loro!), di cui di seguito si provvede a riprodurre un breve elenco. In primis, come accadde ai tempi d’oro della Guerra fredda, con l’Urss che superò gli Usa nella prima parte della corsa allo spazio e agli armamenti, anche oggi il complesso militar-industriale russo ha dato prova di grande flessibilità e inventiva, aggirando in tutti i modi possibili il blocco delle importazioni di tecnologia avanzata dall’Occidente. Ovviamente, in questo la Cina ha giocato la parte del leone con i suoi componenti dual- use, come così hanno fatto gli Stan-State (fedeli alleati di Mosca), come Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, che hanno più che triplicato i loro interscambi con la Russia e con l’Europa, importando e riesportando verso Mosca tecnologia occidentale embargata.

Secondariamente, tutto ciò è accaduto perché l’Occidente non ha più alcuna influenza sull’accountability dei conti e del bilancio pubblici della Russia putiniana che, a grande velocità, ha convertito il suo apparato produttivo e il sistema occupazionale in economia di guerra. Infatti, senza una grande (o nessuna) resistenza interna, il regime ha reindirizzato circa un terzo del suo Pil (pari a 9600 miliardi di rubli nel 2023 e a 14.300 nel 2024) per sostenere lo sforzo bellico, incrementando di ben tre volte il corrispondente budget per la difesa stanziato nel 2021, l’anno contabile “normale” prima dell’invasione. Queste enormi spese includono, ovviamente, oltre alla produzione di hardware bellici, i contributi sociali e assistenziali a favore di coloro che stanno combattendo in Ucraina e delle loro famiglie rimaste in patria, compreso un minimo di welfare per i cittadini che si trovano sotto occupazione nel Donbass. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile se la Russia non avesse continuato a generare colossali entrate (pari a 8.800 miliardi di rubli/anno) dalla vendita all’estero delle sue gigantesche riserve di gas e petrolio che, malgrado il crollo verificatosi nel 2022, hanno mantenuto la media degli ultimi dieci anni, anche se di un quarto inferiori ai valori del 2021. In fondo, gran parte del territorio russo è un giacimento a cielo aperto di combustibili fossili. Un noto aforisma in merito dice che l’economia russa assomiglia oggi a una stazione di benzina che abbia iniziato a produrre carri armati nel retro del distributore. A sostegno della propaganda di guerra, il Governo russo ha rispolverato per l’occasione il diktat staliniano per sconfiggere il nazismo, ovvero fare “tutto quel che serve per il fronte, qualunque sacrificio per la vittoria”. E non c’è solo questo tipo di entrate legali, dato che il regime si è rivelato piuttosto disinvolto nel pretendere “donazioni volontarie” dagli investitori internazionali che hanno deciso di ritirarsi dalla Russia. Questo ha significato, in generale, una riconversione economica che metaforicamente si potrebbe definire un “keynesimo militare”, rompendo così radicalmente con le politiche macroeconomiche conservatrici che lo stesso Putin aveva perseguito nei primi due decenni del suo mandato presidenziale.

Terzo punto: tecnocrati del calibro del ministro delle Finanze, Anton Siluanov, e del governatore della Banca centrale di Mosca, Elvira Nabiullina, hanno dato un grande contributo a superare le molteplici crisi finanziarie susseguitesi dal 2022 in poi, fissando limiti molto restrittivi all’inflazione, con la messa al riparo del sistema bancario russo e l’incremento delle riserve di valuta estera. Il tutto per cercare in ogni modo di governare il notevole aumento della spesa pubblica russa per gli armamenti.

Ed è grazie a questo approccio oculato (che ha imposto limitazioni alla fuga di capitali e alle transazioni bancarie) se Mosca è riuscita a contenere l’impatto iniziale delle sanzioni occidentali, che hanno determinato il congelamento di 300 miliardi di dollari di conti e delle riserve sovrane russi all’estero. Di recente, i produttori di armi hanno ricevuto rassicurazioni da Putin per cui sarà lo Stato a garantire per gli anni a venire l’evasione degli ordini attuali, anticipando l’80 per cento del valore di acquisto delle forniture militari richieste. E i risultati di questo enorme sforzo produttivo si vedono sul fronte militare, con il clamoroso fallimento della controffensiva ucraina della primavera scorsa. Ed è sempre il Ministero russo delle Finanze ad aver stimato che le ricadute positive dell’attuale economia di guerra sul Pil non saranno inferiori al 10 per cento per l’anno fiscale 2022/2023. Nello stesso periodo è prevista una crescita del 35 per cento del prodotto industriale relativo al fabbisogno bellico, senza che vi sia una significativa penalizzazione della produzione a scopi civili. Basta e avanza per capire come siamo messi qui in Occidente?

Aggiornato il 22 febbraio 2024 alle ore 09:45