Pace in cambio di tunnel, per liberarci di Hamas

Qual è l’arma invincibile di Hamas? Risposta: la super rete di tunnel sotterranei, in grado di resistere a qualsivoglia bombardamento di superficie. Un reticolo di cunicoli, quest’ultimo, a prova di inondazione e di gas asfissianti, che scende in profondità scorrendo per centinaia di chilometri nel sottosuolo di Gaza. Il complesso dei tunnel, ben areato e illuminato, è ricco di stanze e magazzini per il deposito di armi, munizioni, missili e ogni sorta di kit di sopravvivenza. Ed è in grado di ospitare centri sotterranei di comando e di nascondere gli ostaggi catturati. E poiché eliminare Hamas da Gaza significa rendere inoffensiva la macchina da guerra dei suoi rifugi sotterranei, è chiaro che un vero accordo definitivo non possa che fondarsi sull’equazione “pace in cambio dei tunnel”. Sarà, poi, una commissione internazionale indipendente a dover prendere in consegna l’intera rete, che occorrerà distruggere e interrare sino all’ultimo metro per garantire la sicurezza di Israele. La stessa commissione dovrà, inoltre, insediarsi in modo permanente, per il monitoraggio satellitare e la neutralizzazione tempestiva di qualsiasi attività di escavazione nell’area della Striscia, non espressamente autorizzata dalla commissione stessa. L’Accordo di pace futuro non può che prevedere la smilitarizzazione di Gaza, con la proibizione totale di introdurre armi da guerra nell’area, al di fuori di quelle strettamente necessarie per l’equipaggiamento di una forza interna di polizia palestinese, alla quale sarà demandato il controllo della sicurezza pubblica. Ora, il problema si pone molto seriamente per il “dopo”, quando cioè, in un modo o nell’altro, Israele deciderà di mettere fine all’assedio di Gaza.

Nel merito, fa davvero sorridere la soluzione “due Stati, due Popoli”, anche perché a quanto pare nessuno ha interesse a prendere nota delle lezioni del passato, stabilito che nel presente qualcuno dovrà pur rispondere alle dichiarazioni tranchant del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Del tipo: “Tutti parlano di due Stati per due popoli. Ma io domando che cosa significhi: devono avere un esercito? Possono siglare un accordo militare con l’Iran? Possono importare missili dal Nord Corea e altre armi mortali? Possono continuare a educare i bambini al terrorismo e allo sterminio?”. La condizione di fatto dei luoghi impone poi ulteriori considerazioni, visto che la presenza di qualcosa come 700mila coloni israeliani in Cisgiordania, con i loro numerosi insediamenti all’interno del territorio palestinese, farebbe del futuro Stato arabo un vestito di arlecchino. Di fatto, la presenza israeliana in Cisgiordania sarebbe oggetto di tensioni permanenti e conflittuali tra i due Stati, se non altro per la difficoltà di mantenere i collegamenti tra colonie e madrepatria. Storicamente, l’estrema delicatezza del problema della coesistenza dei due popoli fu affrontata per la prima volta nella lettera di intenti del 1917, indirizzata dal ministro degli Esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild (grande sostenitore della costituzione di uno Stato ebraico in Palestina), nota appunto come Dichiarazione di Balfour.

Nella lettera, il Governo di Sua Maestà si dichiarava favorevole alla creazione di un foyer nazionale (i francesi definiscono foyers nationaux le zone sulle quali ciascuna tribù può rivendicare un diritto storico di residenza) per gli ebrei della diaspora. Nella versione inglese, si utilizza intenzionalmente il termine “national home”, anziché “Stato” vero e proprio, a causa dell’opposizione esistente all’epoca nel Gabinetto britannico al programma sionista di Rothschild. Tuttavia, dopo l’Olocausto, il salto di qualità definitivo avviene con la Risoluzione Onu numero 181 del 29 novembre 1947 (da rileggere integralmente per capirne la portata innovativa che continua anche oggi a esplicare i suoi effetti), che formula un “Piano di ripartizione con unione economica” (su quest’ultimo, formidabile aspetto “federalista”, ab origine, tutta la stampa e gli analisti mediorientali hanno taciuto per settanta anni!), dettagliando con grandissima cura ciò che doveva essere considerato territorio dello Stato palestinese, distinto e separato da quello della corrispondente entità israeliana. Oggi, che cosa rimane di quest’ultimo? Quelli che propendono per i “due Stati”, da dove intendono partire? E quale struttura giuridico-amministrativa garantirà la fase di transizione, innovando rispetto al raffinatissimo meccanismo della Risoluzione 181/1947 dell’Onu?

Ultima notazione: le stragi di palestinesi e dei Fratelli Musulmani (cui appartiene Hamas) sono avvenute esclusivamente per mano araba. Iniziò nel 1952 Gamal Abdel-Nasser a perseguitare e incarcerare la Fratellanza e proseguì nel 1970 il Re di Giordania con il Settembre nero, sterminando parecchie migliaia di palestinesi, perché l’Olp e i profughi della Nakba avevano creato uno Stato nello Stato e intendevano rovesciare con le armi la monarchia. Successivamente, nel 1982, fu la volta del dittatore siriano Hafiz al-Assad a eliminare con la strage di Hama non meno di 40mila Fratelli Musulmani. Nello stesso anno, con il massacro di Sabra e Chatila da parte delle milizie filoisraeliane libanesi, i combattenti palestinesi di Yasser Arafat furono definitivamente espulsi dal Libano, avendo contribuito con le loro attività armate a destabilizzare i delicati equilibri interni interreligiosi e interetnici. Per finire, con il colpo di Stato in Egitto del 2013, che estromise dalla scena i Fratelli Musulmani, vincitori delle elezioni legislative del 2012. E, anche oggi, il Cairo erige le barricate per non far passare un solo palestinese del milione di profughi in fuga da Gaza. Allora: quale Stato per i palestinesi? Garantito da chi? In futuro, gli arabi sarebbero più sicuri con un Hamastan alle loro porte? Conclusione: solo una vera e propria Federazione di Palestina potrebbe un giorno portare la pace definitiva tra i due popoli.

Aggiornato il 21 febbraio 2024 alle ore 09:16