Semiotica dell’Incoronazione, Carlo III e i simboli

Carlo III è riuscito nel miracolo. Contrariamente ai pronostici di critici e disfattori della monarchia britannica, l’incoronazione del primogenito di Elisabetta II, a otto mesi dalla morte della “Regina più amata”, ha rinnovato la fede nelle stigmate della regalità con una liturgia impassibile, trascendente e insormontabile, nonostante le poche ma significative innovazioni. D’altro canto il monarca più anziano, che ha atteso sette decenni la Corona, che è diventato Re a 74 anni lui e 75 la Regina Camilla, avrà tanto preparato questo momento che fallire era impossibile. E che cosa non doveva soccombere? Che cosa Carlo III ha portato alla percezione d’intramontabile?

Una sfida enorme. Perché dall’incoronazione di sua madre Elisabetta II, il 2 giugno 1953, a oggi non sono cambiate solo le tradizioni, le mode e i tempi, è cambiata la vita. Una trasformazione di generi e valori fin all’interno della biologia, delle molecole dell’essere, dei legami, delle strutture sociali, economiche, che non ha lasciato esente la famiglia reale. E tutto questo la cerimonia non lo ha nascosto.

Carlo III ha fatto una scelta arguta e di misura. Non ha censurato nulla, ha lasciato che fluisse davanti a milioni di sudditi e miliardi di telespettatori la realtà, a cominciare da lui e dalla “sua” Camilla facendo discendere sulla cerimonia il velo lieve della mestizia. Non solo per la giornata uggiosa in stile “fumo di Londra”, ma per quel dolore rarefatto che non poteva mancare. Sia per le lunghe ombre della morte di Lady Diana e sia per la più recente scomparsa dell’insuperabile Regina madre, eventi che non potevano non significare il tono della manifestazione. Non nascondere, non mistificare ha consentito al neo Re Carlo di affrancarsi dai giudizi e di far prevalere la forza della rappresentazione.

Non solo la Royal family, tutto il concetto e la storia della famiglia ad ogni latitudine e angolo della terra attraversa una guerra dilaniante e i suoi vinti e vincitori erano lì, davanti agli occhi di tutti. Carlo con l’amata separata, che in altre epoche è costata la rinuncia al trono di Edoardo VII e Wallis Simpson, e allo stesso modo gli altri duemila tra ospiti d’onore e teste blasonate, dignitari britannici e altezze mondiali, ciascuno con le proprie storie e contraddizioni. Fin dalle prime righe della famiglia regnante con Henry, il secondogenito che ha affrontato la navata dell’abbazia di Westminster da solo sulla scia delle polemiche sollevate dal suo libro e dalle prese di posizioni della moglie Meghan Markle, assenza pesante. Al fratello William, erede al trono, che ha sfuggito agli occhi del padre Re durante la lettura dell’atto di fedeltà per incrociarli nel momento cruciale del bacio sulla guancia, mentre Carlo III, socchiudendo appena le palpebre in cenno di gratitudine, rispondeva con un laconico “thank you”. In prima fila l’impeccabile Kate, già icona regale, con gli impeccabili principini, il paggetto George, la candida Charlotte e l’irrefrenabile Louis. Dio salvi la Corona. Dietro le fame scheggiate di Andrea, di Edoardo e tutti i vizi e le virtù delle monarchie del nostro secolo.

Un grande affresco della contemporaneità, come racconta bene il decano dei commentatori britannici Antonio Caprarica nel suo libro “Carlo III” (Sperling & Kupfer). Quale sarà il destino della Corona in mano al “Principe ribelle”, al “Principe laureato”, al “Principe impiccione”, al “povero Carlo” come è stato definito nel corso dei decenni il sovrano? “Amato e odiato da stampa e sudditi a fasi alterne, tra picchi di straordinaria popolarità e abissi di ostilità e discredito, non si può certo dire che il percorso da principe a re di Carlo sia stato lineare e privo di ostacoli”, osserva il giornalista-scrittore. Ma alla fine ce l’ha fatta a portare questa Inghilterra sul trono medioevale di Sant’Edoardo il Confessore e sottometterla alle effigie, ai simboli e ai riti secolari della Chiesa nazionale con tutte le aperture del caso, come l’esordio delle donne ecclesiastiche accanto all’arcivescovo di Canterbury, come la straordinaria parata di colori, di etnie, di fedi, di appartenenze. In fondo anche Meghan Markle, da lontano, può pensare di aver vinto e di esserci stata all’incoronazione più inclusiva della storia, poiché le sue critiche hanno favorito aperture e cambiamenti. Ma sempre secondo i protocolli di una madre regina invalicabile nella storia e nella famiglia.

Il volere di Elisabetta II Re Carlo III lo ha eseguito e dimostrato: porre tutto e tutti sotto la potenza, la forza e la continuità della Corona. Che non sono gli orpelli della monarchia, ma i segni e i simboli quindi – per dirla con Ferdinand de Saussure – una semiotica della regalità che travalica il tempo e dà senso e significato alla società. La grande manifestazione dell’Incoronazione non si è esaurita negli interpreti, nelle persone, quelle passano. Come noi stessi in fondo siamo comparse della storia e quello che dovremmo tenere a mente per non sembrare ridicoli e protervi è l’umiltà dei ruoli anche sotto i simboli più pesanti. Che sono i riti prima di tutto. L’esaltazione della cerimonia, ciò che insegna la monarchia è questo: i valori delle insegne regali come il globo d’oro, gli scettri e la spada, le carrozze auree ancorché modernizzate con l’aria condizionata e su tutto la potente macchina di Buckingham Palace, dei castelli di Windsor, delle abbazie sovrane, dell’Inghilterra che affronta ogni crisi perché è nel principio di ordine e servizio che affronta i secoli nella sua immanente trascendenza. Tutto sotto il Re dei Re come Carlo III ha posto e rinnovato nel principio di fede eterna e invincibile. “Non sono qui per essere servito, ma per servire”. Non più solo Carlo d’Inghilterra, ma Carlo di Dio.

Aggiornato il 08 maggio 2023 alle ore 16:01