Statuto Corte penale internazionale e Usa

Il Dipartimento di Stato il 2 aprile scorso ha annunciato la revoca dell’Executive Order 13928 su “Blocking property of certain persons associated with the International criminal court (Icc)”. Si tratta finalmente di una importante apertura degli Stati Uniti, che potrebbe preludere ad una rinnovata iniziativa diplomatica per l’affermazione dell’idea di giustizia penale internazionale.

La cultura liberale e democratica, che si è formata anche sulle idee di affermazione del Diritto internazionale magistralmente espresse con l’opera “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant e nella “Teoria generale del diritto e dello Stato” di Hans Kelsen, non può sottrarsi dal guardare con forti preoccupazioni alle dinamiche attuali dell’international law. Gli scenari odierni si caratterizzano sempre più nella generale crisi delle organizzazioni internazionali e regionali, confermata anche dalla proliferazione di nuovi forum di dubbia effettività, e dal riemergere di diffidenze e veri e propri scontri geopolitici fra le cosiddette grandi e medie potenze. E ciò si è constato anche di fronte alle ultime emergenze, dalla minaccia terroristica alla pandemia, che invece avrebbero potuto e dovuto rappresentare opportunità uniche per rafforzare la cooperazione degli Stati. In particolare, l’attuale emergenza Covid-19 non ha fatto altro che confermare le difficoltà dei rapporti in seno alla comunità internazionale, da cui sono derivate anche le criticità nella governance globale sulle emergenze sanitarie, cui dovrebbe essere preposta l’Organizzazione mondiale della sanità.

In questo processo di arretramento dei rapporti internazionali, certamente ha avuto un ruolo determinante la politica isolazionista della più grande democrazia liberale del mondo: gli Stati Uniti d’America, che hanno appena visto concludersi un’amara esperienza presidenziale con l’assalto a Capitol Hill. Tuttavia, ora si evidenziano molti aspetti di novità nella Amministrazione Biden, pur in un esordio che deve definirsi ancora incerto. Una seppur timida revisione della politica isolazionista sembra comunque delinearsi in alcuni passaggi. In particolare, uno di questi forse non ha avuto l’adeguato risalto che meritava, mentre potrebbe avere effetti significativi in una prospettiva futura dei rapporti degli Stati di fronte a un tema sofferto e delicato, qual è quello dell’affermazione di una giustizia penale internazionale effettiva contro i responsabili dei crimini di guerra e contro l’umanità.

Il 2 aprile scorso, sul sito istituzionale del Dipartimento di Stato americano, è apparsa una nota ufficiale del Segretario di Stato, Antony John Blinken in cui si è annunciata finalmente la revoca dell’Executive Order 13928Blocking Property of Certain Persons Associated with the International Criminal Court (ICC). Si tratta del noto provvedimento che l’11 giugno 2020 il presidente Donald Trump, sostenuto dal segretario di Stato, Mike Pompeo, aveva disposto nei confronti della procuratrice della Icc (International criminal court) Fatou Bensouda, dei funzionari della Corte e di quanti collaborassero con essa, in risposta all’annunciato avvio di una inchiesta sui presunti crimini di guerra e contro l’umanità commessi, anche da parte di soldati americani, in Afghanistan a partire dal 2003.

L’iniziativa giudiziaria riguarda pure altri supposti reati legati al conflitto afghano commessi in territori di altri Stati membri della Icc a partire dal 2002 e alcune pratiche ritenute non conformi al diritto internazionale, tra cui quelle del carcere di Abu Ghraib. In un primo momento, la Pre-Trial Chamber aveva negato l’autorizzazione a procedere, sostenendo che “un’investigazione nella situazione afghana in questa fase temporale non avrebbe servito gli interessi della giustizia”. Successivamente, a seguito dell’appello proposto dal Prosecutor, la Camera di appello della Icc, con decisione del 5 marzo 2020, aveva autorizzato, all’unanimità, il prosieguo delle indagini. L’Executive Order di Trump prevedeva dunque una serie di sanzioni, tra cui il congelamento dei beni e restrizioni all’ingresso negli Usa, da attuarsi nei confronti dei giudici della Corte, accusati di aver posto in essere una “minaccia straordinaria alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti.

La nota del Dipartimento di Stato del 2 aprile, pur confermando le riserve sulle inchieste intraprese, appare una dichiarazione di profondo significato politico. Gli Stati Uniti sono stati sinora promotori di una campagna diplomatica volta a bloccare i processi della Icc insieme a Israele, altra nazione che pure ha protestato contro i giudici della Corte, per un’altra inchiesta attivata in particolare sui bombardamenti israeliani di Gaza nella guerra del 2014 (ma anche sulle responsabilità di vari eccidi perpetrati da Hamas). Stati Uniti e Israele sono tra gli Stati più importanti che non hanno ancora ratificato lo Statuto istitutivo (la Corte conta 123 Stati parte) con il chiaro proposito di evitare la esposizione alla giurisdizione internazionale dei rispettivi militari e funzionari, chiamati a “contrastare gravissime minacce alla sicurezza nazionale”, concretizzatesi peraltro con diffusa frequenza in attacchi terroristici gravemente letali e in situazioni di conflitti ad alta intensità.

Nella prima parte della dichiarazione si ribadisce, dunque, il “disaccordo con le azioni della Icc relative alla situazione in Afghanistan e Palestina” e l’“opposizione di vecchia data agli sforzi della Corte di affermare la giurisdizione sul personale di Paesi non Stati parte come gli Stati Uniti e Israele”. Ma subito dopo l’Amministrazione Biden si dichiara orientata ad affrontare la questione non con l’imposizione di sanzioni ma “attraverso il coinvolgimento di tutte le parti interessate nel processo Icc.

Da qui alcune nuove enunciazioni di principio che aprono uno spiraglio concreto alla ripresa di un dialogo degli Stati Uniti con i fautori della giurisdizione della Corte: nella nota del Dipartimento si afferma infatti che il sostegno allo Stato di diritto, l’accesso alla giustizia e l’accertamento sulle responsabilità per le atrocità di massa” rappresentano “importanti interessi per la sicurezza nazionale che gli  Stati Uniti intendono proteggere e perseguire impegnandosi con il resto del mondo per affrontare le sfide di oggi e di domani. E la nota del segretario di Stato Blinken prosegue ricordando che, dai tempi dei Tribunali di Norimberga e Tokyo, la leadership degli Stati Uniti ha permesso che la giustizia dei tribunali internazionali condannasse gli imputati dei più gravi crimini commessi dai Balcani alla Cambogia, al Ruanda e altrove, assicurando che quell’eredità sostenesse anche l’azione di una serie di tribunali internazionali, regionali e nazionali e di meccanismi investigativi internazionali per Iraq, Siria e Birmania “per realizzare la promessa di giustizia per le vittime di atrocità”.

Conclude la nota: “Continueremo a farlo attraverso rapporti di collaborazione, incoraggiati dal fatto che gli Stati parte dello Statuto di Roma stanno prendendo in considerazione un’ampia gamma di riforme per aiutare la Corte a dare priorità alle proprie competenze e a realizzare la sua missione principale di servire come tribunale di ultima istanza per punire e scoraggiare crimini atroci per l’umanità. Riteniamo che questa riforma rappresenti uno sforzo proficuo.

All’ annuncio della revoca dell’Executive Order, sul sito istituzionale della Corte penale internazionale è apparsa una nota di risposta con la quale si dichiara di accogliere con favore la decisione del governo degli Stati Uniti, “consapevole del fatto che gli Stati Uniti hanno tradizionalmente fornito importanti contributi alla causa della giustizia penale internazionale”. La Corte si dice inoltre “pronta a impegnarsi nuovamente con gli Stati Uniti nella continuazione di quella tradizione basata sul rispetto reciproco e sull'impegno costruttivo”. E infine si sottolinea che “nell’adempimento del suo mandato giudiziario indipendente e imparziale, la Corte agisce rigorosamente entro i confini dello Statuto di Roma, come tribunale di ultima istanza, in modo complementare alle giurisdizioni nazionali. La Corte si basa sul sostegno e sulla cooperazione dei suoi Stati parte, che rappresentano tutte le regioni del mondo, e della comunità internazionale più in generale”.

Sono precisazioni queste ultime che appaiono sottolineare le guideline su cui continuare a tracciare la giurisdizione della Icc: la complementarietà (ai sensi degli articoli 1 e 17 dello Statuto istitutivo, la Corte può esplicare la sua giurisdizione solo in caso di unwillingnes o inability, mancanza di volontà o incapacità, per “collasso istituzionale”, degli Stati) e la cooperazione degli Stati, implicitamente sottolineando che in atto la Corte può vantare comunque il sostegno di 123 Stati del mondo. Su queste basi di reciproca attenzione si è di fronte ad un’occasione che andrebbe colta a volo dalla vasta comunità degli Stati parte che hanno ratificato lo Statuto della Corte penale internazionale per rilanciare un progetto nuovo di cooperazione. Peraltro, la nomina del nuovo prosecutor alla Corte penale internazionale, che si insedierà nel mese di giugno, può rappresentare una concomitanza favorevole per nuove iniziative: il procuratore sarà Karim Khan, un avvocato britannico che anche i giuristi statunitensi ben conoscono essendo stato a capo della speciale Commissione delle Nazioni Unite sui crimini dell’Isis.

L’Italia, che oggi sembra porsi con rinnovata credibilità all’attenzione dei rapporti con la Comunità internazionale, potrebbe giocare un ruolo determinante nel rilanciare un’iniziativa diplomatica volta a riproporre un dialogo con Stati Uniti e Israele in particolare, ma anche con gli altri Stati che attualmente hanno espresso riserve nei confronti della giurisdizione della Corte. Ciò consentirebbe di non dimenticare i tempi “eroici” della cultura giuridica e diplomatica italiana, in cui hanno avuto certamente un peso fondamentale i valori liberali e democratici, che si riconoscono anche nei principi della nostra Costituzione oltre che nel processo di affermazione del sistema di tutela dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario.

È a quella cultura che si deve lo sforzo compiuto, in anni di dibattiti e prolungate mediazioni, che ha saputo portare al trattato istitutivo della Corte, lo Statuto della Corte penale internazionale, approvato a Roma il 17 luglio 1998, non a caso indicato nella comunità internazionale dei giuristi come lo Statuto di Roma”. Chi avverte l’insopprimibile bisogno di diritti e libertà per gli individui e per le nazioni, non può che rimanere inorridito di fronte ai gravi crimini di guerra e contro l’umanità che ancora continuano a perpetrarsi in molte sofferte parti del mondo: la sola risposta da dare è pervenire ad un modello di giustizia penale internazionale, che sia tuttavia effettiva e condivisa, in specie da quegli Stati che hanno fondato lo loro Storia sui valori della libertà e della democrazia.

Aggiornato il 26 aprile 2021 alle ore 13:29