Russia e dintorni, la storia siamo noi

Chi ha paura di Vladimir Putin? Per rispondere, occorre esaminare il dualismo che si è venuto a creare tra l’universo separato delle Democrazie liberali (oggi devastate nella loro identità storica dall’avanzata irresistibile di una sorta di neo-nazismo basato sul politically correct, per cui i wasp bianchi hanno sostituito gli ebrei della Soluzione finale), contrapposte a quelle illiberali o autocratiche. E, in questi tempi bui di pandemia, sono proprio le performance di queste ultime (Cina e Russia in prima fila) ad aver surclassato le prime, generando così un odio-invidia degno di altri tempi e a parti invertite, in cui esisteva la Cortina di Ferro per separare i buoni (gli occidentali) dagli invidiosi cattivi orientali.

Mosso dal sacro furore dell’intellettuale di sinistra tradito, Ezio Mauro, ex corrispondente dalla Russia Sovietica, è intervenuto su La Repubblica per fare a pezzi Zar Putin, a partire dall’imbarazzante, recente episodio di spionaggio che ha coinvolto, oltre a un alto ufficiale della Marina italiana, l’addetto militare dell’Ambasciata russa a Roma. In sintesi, nell’articolo si parla di una supposta irriducibilità del conflitto tra Mosca e l’Occidente e che l’Europa, agli albori degli anni Novanta del secolo scorso, dopo il crollo dell’Urss, non ha saputo impedire con una “seconda conversione” (la prima era relativa al passaggio dal comunismo al capitalismo) “alla democrazia dei diritti e delle istituzioni, scambiando aiuti in cambio di riforme (…) L’Occidente compie probabilmente qui un errore storico, perché non gioca la carta della pressione per una trasformazione democratica dell’Urss, ridivenuta Russia”.

Da questa mancata occasione si genera il putinismo del XXI secolo che bolla la cultura liberale come obsoleta, separando così il principio liberale dalla democrazia (che, nell’odierna versione russa, diviene pertanto illiberale e autoritaria), “perché il liberalismo ha tradito i suoi presupposti e non è più in grado di rappresentare l'interesse dei suoi cittadini”. E qui, al solito, siamo al detto secondo cui Beati monoculi in terra caecorum. Certa sinistra degli “eletti”, infatti, dimentica troppe cose legate al suo passato comunista verso cui, tra l'altro, non ha mai fatto abiura o avviato una discussione autocritica almeno pari a quella del 1921 con la scissione di Livorno tra Partito Socialista italiano e Partito Comunista italiano leninista. Onestà intellettuale vorrebbe, infatti, che quei rossi divenuti pinky, e allora maggioranza socialdemocratica nell’Europa comunitaria del 1991, facessero il mea culpa per aver lasciato che un’iperinflazione superiore al 1000 per cento devastasse, nei primissimi anni Novanta, la Russia post-comunista facendo fallire intere comunità regionali e riducendo letteralmente alla fame decine di milioni di persone, che vedevano colmi gli scaffali di merci importate, irreperibili in epoca sovietica, senza che i loro stipendi e pensioni fossero più in grado di assicurare loro i bisogni elementari di sopravvivenza alimentare. Invece di sciogliere la Nato e abbracciare in una nuova, rigenerata alleanza politico-militare il Grande Fratello Bianco russo, a seguito dell’eclatante vittoria dell’Ovest sull’Est che mise fine a cinquanta anni di Guerra Fredda, noi – “I Democratici” per eccellenza – abbiamo condannato di nuovo la Russia all’isolamento economico e militare, lasciandola scientemente fallire affinché scivolasse nel sottosviluppo che noi vincitori ritenevamo meritasse.

Se a Berlino, Parigi e Roma non avessimo avuto al comando proprio i pinky, ma i De Gaulle, i Reagan e le Thatcher con ogni probabilità avremmo evitato quel disastro storico che ci ha condotti oggi a riproporre addirittura una nuova Guerra Fredda, per non aver avuto ieri la lungimiranza di inglobare la Santa Madre Russia, dopo averla assistita con imponenti aiuti economici, umani e tecnologici, in un anello periferico della futura Unione (come invece facemmo con gli altri Paesi dell’Est Europa, per quanto riguarda il periodo di transizione da Paese candidato all’adesione a membro effettivo), cosa che ci avrebbe dato un vantaggio incolmabile sugli altri concorrenti sinoamericani, per quanto riguarda la sufficienza energetica e l’pprovvigionamento di materie prime.

Se avessimo avuto quel terzo occhio strategico, avremmo fatto tremare il mondo con la nostra concorrenza commerciale, sfiorando il miliardo di cristiani perfettamente armati, tecnologicamente e scientificamente parlando (si pensi solo al fatto che i russi hanno il vaccino Sputnik e noi nessuno!), grazie all’apporto determinante della storica tradizione russa che ha da sempre privilegiato cultura e scienza. I pinky convertiti di oggi dovrebbero ricordare i disastri letterali e le devastazioni umane, economiche e politiche, che comportò l’imposizione alla Russia di Boris Eltsin del metodo denominato The Washington Consensus” da parte della scuola ultra-liberalista americana, ispirata al protocollo di (Herald) Williamson, la cui versione originaria indicava le linee generali di condotta cui avrebbero dovuto conformarsi le politiche riformatrici, nel passaggio dall’approccio prettamente statalista a quello neo-liberale, mantenendo però saldo il potere regolatorio del governo per evitare il darwinismo economico.

Cosa che, al contrario, in effetti si verificò per non aver adottato quel regime di controlli interni ritenuti indispensabili e necessari. Nel caso russo, infatti, si preferì radicalizzare il change-over sistemico facendo ricorso a un approccio fondamentalista neo-liberale di mercato, che ridusse la politica economica russa ai tre imperativi di “stabilizzare; liberalizzare e privatizzare” in presenza di un ruolo regolatore minimale del Governo.

Cinicamente, il The Washington Consensus” ignorò i problemi insorti con le crescenti disuguaglianze sociali provocando l’assottigliamento drammatico del welfare preesistente. Le grandi privatizzazioni di enormi asset dell’ex Stato sovietico, operate in fretta e furia e in modo confuso, contribuirono a creare qualche centinaio di oligarchi che si arricchirono a dismisura con i privilegi del monopolio, anziché competere sul mercato a beneficio dei consumatori. Una delle eminenze grigie che guidò gli allora governanti russi in questa follia ultra-liberalista fu proprio Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute della Columbia University americana. Sarà bene tornare sul punto, e fare chiarezza sulla totale assenza di lungimiranza geostrategica e riformista dei nostri disastrosi pinky e di chi oggi pontifica in disdegno dei Putin che ha contribuito a creare, come se di quegli errori non fosse stato intellettualmente corresponsabile.

Aggiornato il 08 aprile 2021 alle ore 10:43