Indubbiamente tra l’Impero Ottomano prima, la Turchia poi e le nazioni europee, c’è stato sempre un rapporto difficile, come tra il Cristianesimo e l’Islam. Nel 1923 Mustafà Kemal Atatürk, diventò primo presidente della Repubblica di Turchia e grazie alle sue riforme laiche gettò le basi per dare alla popolazione ex ottomana una omogeneità comportamentale e culturale in generale, che potesse rendere somigliante la “percezione della vita” con i cittadini del “vicino Occidente”. L’avvento di Recep Tayyip Erdogan, che iniziò la sua carriera politica con l’elezione a sindaco di Istanbul nel 1994, cominciò a produrre una lenta ma inesorabile contrazione dei principi laici che da tempo avevano attecchito nella popolazione.
Le idee nazionaliste, già radicali, di Erdogan si avvilupparono intorno all’Adalet ve Kalkınma Partisi, ovvero Partito per la giustizia e lo sviluppo, Akp, da lui fondato nel 2001; i consensi lo condussero ad ottenere la maggioranza nella Grande assemblea nazionale nel 2002, lanciandolo verso un potere con tendenze assolutiste dal 2014 data della sua elezione a presidente. Erdogan ha sempre manifestato il desiderio di entrare nell’Unione europea, ovviamente non per assonanza con le ideologie dei Padri fondatori. E fino a che i residui della laicità erano presenti e le leggi illiberali non proclamate, le nazioni europee davano una certa considerazione all’ingresso della Turchia musulmana nell’Unione. Il tutto si è congelato con le scelte dell’aspirante sultano riguardo alla politica verso i territori dell’ex Impero ottomano; atteggiamenti manifestati con l’oppressione esercitata verso i curdi, con la scarsa considerazione dei diritti umani, con l’oppressione della stampa non allineata, con la persecuzione di ogni posizione politica dissidente, ma soprattutto con l’ambiguo rapporto con il jihadismo.
Da diverse settimane la diplomazia turca sta aumentando le richieste di dialogo, interrotto dal 2016, con gli europei, al fine di trovare una mediazione sulle questioni di massima tensione, che, oltre alla disputa marittima greco-turca, riguardano in particolare il ruolo della Turchia nei conflitti in Siria, in Libia e recentemente la pesante presenza a fianco dell’Azerbaigian nella guerra contro gli armeni per il controllo del Nagorno Karabakh. Lunedì 25 gennaio i ministri degli Esteri dell’Unione europea si sono incontrati per discutere la questione dei difficili rapporti con Ankara; precedentemente il 21 e 22 gennaio il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavusoglu e il suo vice Faruk Kaymakci, hanno avuto una serie di colloqui con i principali leader dell’Ue e della Nato, la Turchia ha aderito ambiguamente alla Nato nel 1952. Al momento, a Bruxelles si moltiplicano i vertici con delegati turchi; tali incontri hanno dato l’impressione di una “offensiva di fascino” turca verso gli osservatori di Bruxelles, i quali dovrebbero giudicare gli sforzi turchi finalizzati ad equilibrare il potere del Governo di Ankara con le libertà dei cittadini. O, quantomeno, rimettere in carreggiata il rapporto danneggiato tra i Ventisette e la Turchia che è ancora, sulla carta, candidata all’adesione.
Il pellegrinaggio turco a Bruxelles è finalizzato al più decisivo vertice europeo di metà marzo, durante il quale i capi di Stato e di governo dovrebbero tracciare l’ennesima “road map” per le future relazioni con la Turchia. È previsto che l’Alto rappresentante Josep Borrell presenterà alla delegazione turca una relazione, nella quale saranno proposte diverse opzioni per un percorso di avvicinamento ed anche sanzioni conseguenti alle contestate attività di perforazione turche nelle acque cipriote e greche, alle violazioni da parte di Ankara dell’embargo sulle armi imposto dalle Nazioni Unite in Libia e all’attivismo militare in Nagorno Karabakh. I dubbi che sorgono sulla “offensiva di fascino” della Turchia verso l’Unione Europea si basano sulle perplessità che la svolta non sia dettata da onestà politica, ma sia l’ennesimo tentativo di fare un gioco di prestigio, tipo Cavallo di Troia.
Solo per restare al 2020, la Turchia ha segnato questo anno con numerose provocazioni, e quindi gli interlocutori europei hanno un approccio cauto con le avance di Erdogan. Come pronunciato dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, occorrono “risultati tangibili”, ad oggi inesistenti. L’anno 2021 si preannuncia rischioso per il presidente turco Erdogan; nonostante il suo nuovo look da stratega e audace leader militare che lo ha visto ottenere notevoli successi con i suoi droni in Siria, Libia e Nagorno-Karabakh, oggi si trova in un vicolo cieco; deve affrontare internamente il suo consolidato declino politico ed il suo isolamento sull’arena internazionale. Cosa farà per trovare la formula magica per affascinare nuovamente un elettorato ormai disincantato? Potrà riconquistare la fiducia perduta dei suoi alleati tradizionali? A Washington come a Bruxelles, l’indulgenza non è più d’obbligo. Infatti, a dicembre anche il Congresso Usa ha imposto sanzioni alla Turchia, come rappresaglia per l’acquisto del sistema missilistico antiaereo S-400 dalla Russia, notoriamente maldisposta verso la Nato. Inoltre, l’Unione europea si è detta pronta ad agire nel caso in cui le provocazioni turche continuassero nel Mediterraneo orientale.
Tuttavia, sembra che Erdogan voglia migliorare le relazioni più che con l’Unione europea, con la Francia. Infatti, una regolarizzazione dei rapporti con Bruxelles sarebbe solo lo strumento per salvare il legame con Parigi, danneggiato anche dalla frase di Erdogan che aveva consigliato al presidente francese Emmanuel Macron di “farsi curare la salute mentale”. A conferma, ma non c’era bisogno, che gli interessi turchi per l’Ue sono agli antipodi dei principi di Unità europea dei Padri fondatori, ma purtroppo questi si sono persi anche all’interno dei Ventisette membri.
Aggiornato il 01 febbraio 2021 alle ore 10:32