Neo-ottomani: ambizioni massimalistiche e genocidio culturale nei confronti degli “altri”

Sotto il dominio dei regimi autocratici di Erdogan (Turchia) e di Aliev (Azerbaijan), dove le voci fuori dal coro sono normalmente destinate a sparire, le testimonianze artistiche e architettoniche presenti e passate, in particolare i monumenti storici, creati da “altre” culture - con particolare riferimento alle etnie cristiane - non solo rimangono in ostaggio, ma vengono presi di mira per un nuovo genocidio culturale. Forse adesso ci rendiamo conto del fatto che niente può salvaguardarli se non una posizione politica forte, determinata da parte della comunità internazionale.

La decisione cinica e deplorevole del presidente turco di trasformare in moschea la Basilica di Santa Sofia, storico monumento ormai aconfessionale di Costantinopoli, investe una questione culturale, ma allo stesso tempo niente meno che politica – una questione sintetizzata recentemente anche dal leader della Lega, Matteo Salvini: “La stessa Turchia che qualcuno vorrebbe far entrare in Europa, trasforma Santa Sofia in una moschea. La prepotenza di un certo islam si conferma incompatibile con i valori di democrazia, libertà e tolleranza dell’Occidente”.

Appare evidente che la responsabilità di intervenire oggi diventa più che vitale, non solo nelle questioni riguardanti l’urgenza di salvaguardare la vita umana, ma anche in quelle relative alla conservazione dei beni culturali di rilevanza mondiale. Certo è che una reazione da parte della comunità internazionale al cinismo, vandalismo e militarismo nei tempi della pandemia, sarebbe più che mai auspicabile non solo per contrastare la politica della Turchia che oggi procede fermamente nelle sue strategie di deturpamento e annientamento, riflesse nel suo recente motto “Hagia Sophia fatta, Atene è la prossima“, e in quello più antico datato 1480 da Maometto II “Abbiamo preso la madre (Costantinopoli) ora prenderemo la figlia (Roma)”, ribadito pochi anni fa dallo stesso despota turco. Accanto a questo occorre limitare il rischio di un’ulteriore destabilizzazione della regione, iniziato con le azioni intraprese dall’Azerbaijan, da considerare sorella minore della satrapia turca ma con ambizioni non meno massimalistiche, foraggiate e incoraggiate dalla stessa Turchia.

Per contrario la Repubblica d’Armenia, a diversi livelli, fa appello ai leader degli stati democratici del mondo, affinché si impegnino teoricamente, e si adoperino concretamente, per la protezione di tutti i popoli. L’Armenia, nazione con forti valori umanitari e cristiani, che desidererebbe vedere le forze di tutti unite contro il nemico comune, la pandemia, oggi sfortunatamente vede i suoi due vicini – Turchia e Azerbaijan –  intensificare le politiche massimalistiche, nel silenzio complice di molti Stati impegnati a salvarsi la pelle e sempre di più concentrati su politiche egoistiche, che implicano, tra l’altro, razzismo culturale e violazione esplicita del diritto internazionale umanitario.

Il regime di Ilham Aliev (rappresentante della seconda generazione di una dinastia di oligarchi al potere in Azerbaijan dagli anni 70 del secolo scorso), sempre fedele al suo modus operandi “I. attacca – II. blocca meccanismi di investigazione – III. incolpa l’avversario, ha ordinato e scatenato lo scorso 12 luglio una nuova serie di azioni militari provocatorie contro l’Armenia.

Una delle rappresentazioni più palesi di quel modus la scorgiamo anche oggi – l’escalation degli attacchi militari in direzione nord-est del confine armeno-azero, nella regione di Tavush – territorio della Repubblica d’Armenia che non ha niente a che fare con il territorio della Repubblica de facto di Artsakh (Nagorno Karabakh).

Il tentativo di un gruppo di soldati azeri di attraversare il confine con l’Armenia in direzione Tavush in un veicolo Uaz (una sorta di campagnola militare di ultima generazione per dirla all’Italiana) ha già provocato violenze, sul confine. Sono state ignorate unilateralmente dall’Azerbaijan tutte le richieste di cessate-il-fuoco globale e immediato formulate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ribadite anche con profonda speranza da Papa Francesco come il “primo passo coraggioso per un futuro di pace”. L’Armenia, dal canto suo, ha dato ordine ai propri soldati di non rispondere alle provocazioni se non in caso di estrema necessità e pericolo incombente e immediato per la popolazione civile.

Difendendo il proprio territorio e la popolazione inerme, l’Armenia è in piedi, ferma sulle sue posizioni, contro le aggressioni dell’Azerbaijan che sembrano la seconda puntata della Guerra dei quattro giorni dell’Aprile 2016, durante la quale gli azeri venivano appoggiati anche dai jihadisti del Daesh (Isis).

Si attende ora la seduta straordinaria dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) per la questione sollevata da una nazione che conta sulle proprie capacità, però desidererebbe, almeno una volta, vedere un miracolo ovvero una reazione umana adeguata della comunità internazionale e dei paesi che si sono espressi numerose volte a favore della democrazia, della giustizia e della pace. Molti di questi purtroppo continuano a vendere armi convenzionali e non convenzionali proprio a chi le usa con spirito genocidiario e senza alcuna parvenza di umanità, utilizzando, peraltro, la propria popolazione come scudo umano.

(*) Professore Associato Università Statale di Yerevan

 

Aggiornato il 16 luglio 2020 alle ore 10:38