L’Argentina sta affondando, e l’Europa cosa sta facendo per salvarla? Il più europeo dei paesi latinoamericani è sull’orlo di un disastro non soltanto economico, come dimostra l’incombente default, ma anche politico, come si vede dall’operato del governo insediatosi nel dicembre scorso con il nuovo presidente della Repubblica. Il rischio di un inabissamento è, purtroppo, reale e imminente, e coincide, anche in senso causale, con l’imporsi di un regime che, per usare un termine sintetico, possiamo definire comunista. Affari interni di un paese sovrano oppure questione di interesse internazionale? Quando una crisi economica è connessa anche a scelte politiche in contrasto con i fondamenti del mondo liberaldemocratico occidentale, quest’ultimo ha il diritto e avrebbe il dovere di intervenire, con tutti i mezzi diplomatici a disposizione delle relazioni internazionali, dalla moral suasion alla pressione economico-politica.
Cosa sta accadendo dunque in Argentina? In pochi mesi il governo di estrema sinistra (il cui vero padrone è la vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner, centro del potere e stratega delle decisioni cruciali) è riuscito a imprimere una direzione di marcia così precisa da risultare raggelante. Decreti, proposte di modifiche costituzionali (che mirano soprattutto a intaccare la proprietà privata, la cui intangibilità è sancita appunto dalla Costituzione), progetti di trasformazione socialista del mercato del lavoro e di statalizzazione delle attività produttive, in parte demagogici e in parte drammaticamente concreti, come si può vedere dal recentissimo tentativo di espropriazione governativa (sotto forma di commissariamento) della grande azienda agro-industriale Vicentin, famiglia di origine italiana e impresa attiva dal 1920 entrata in crisi negli ultimi mesi.
Schema classico dei regimi comunisti: si inizia denunciando la povertà e indicandone la causa nel sistema capitalistico, si prosegue accusando le forze della reazione interna e internazionale di ostacolare il superamento della povertà, e si finisce giustificandone la presenza per mascherare il saccheggio a fini personali, a fini del partito ovvero del partito-Stato, legittimando così la distruzione e la sovietizzazione dell’imprenditoria, l’odio di classe, la privazione delle libertà personali e civili. Questa teoria dell’espropriazione generalizzata viene sostenuta, anche a livello apicale, come una forma di azione politica ed economica, come un punto di svolta verso una società di eguali dai polverosi echi marxiani. Il governo sta valicando una soglia che per un paese come l’Argentina sembrava insuperabile. Ma come è potuto accadere questo alzo del tiro? Sotto stretta sorveglianza da parte del Fondo monetario, accerchiato dai creditori internazionali, circondato da paesi governati dalla destra (Brasile, Cile, Bolivia, Uruguay), come mai un governo decide di radicalizzare la propria tendenza socialista con l’espropriazione delle imprese?
C’è un fatto che può spiegare questa tracotanza ideologica. La Conferenza episcopale argentina ha favorito l’elezione del presidente Alberto Fernández e, sia pure assai discretamente, ne appoggia il progetto che vuole spazzare via anche quei pochissimi elementi di liberalismo sociale e di libero mercato che il pur onesto ma scriteriato governo macrista aveva realizzato. Il tratto caratterizzante e originale del neo-comunismo argentino è costituito infatti dal placet ricevuto da Papa Bergoglio, che autorizza e promuove un esperimento ben definibile come catto-comunismo. Il nuovo presidente infatti, oltre ad avere un filo diretto con Santa Marta (che invece la Kirchner non aveva), conta sull’appoggio di molti personaggi che a Santa Marta sono graditi.
La visione economico-sociale di Jorge Bergoglio è quella di una società pauperistica e di un’economia quasi di sussistenza, che per quanto tinteggiata con tonalità etiche resta un incubo per qualsiasi società avanzata. Egli vagheggia “un’economia comunitaria” che riesca a “creare lavoro dove c’erano solo scarti dell’economia idolatrica”, in uno scenario che sembra idilliaco ma che in realtà sarebbe post-atomico, tanto è desolante: “le imprese recuperate [recuperadas, cioè sottratte, in vari modi, ai proprietari], i mercatini liberi e le cooperative di raccoglitori di cartone sono esempi di questa economia popolare che emerge dall’esclusione e assume forme solidali che le danno dignità” (Papa Francesco, Terra, Casa, Lavoro, 2017).
E i governi dovrebbero incentivare queste “forme di economia popolare e di produzione comunitaria” (che spesso nemmeno pagano le tasse, che sono sovvenzionate dallo Stato e quindi catalogabili come pura spesa pubblica), perché sarebbero l’espressione del bene comune, l’antitesi rispetto “all’idolatria del denaro”. Questa è la teoria economico-sociale di stampo bergogliano; questo è il programma economico-sociale che un gruppo di dirigenti politici e di movimenti sociali dell’economia popolare ha proposto poche settimane fa al presidente Fernández: spacciata come ricerca del bene comune, in realtà questa prospettiva porta alla povertà comune, alla povertà generalizzata, al comunismo post-industriale che anziché produrre ricchezza genera miseria, per creare così l’uomo nuovo catto-marxista da sempre sognato dai teologi della liberazione.
Qui il cattocomunismo rischia di diventare forma-Stato. Se Bergoglio ne è il leader mondiale, uno dei principali teorici è il vescovo Marcelo Sánchez Sorondo, strettissimo consigliere del Papa e come lui argentino, il cui modello non è tanto la Cuba castrista, il Venezuela chavista o il Nicaragua orteghista, ma niente di meno che la Cina, quella Cina che il vescovo magnifica come il regno del bene sulla terra: oggi, sostiene Sorondo, “quelli che meglio realizzano la dottrina sociale della Chiesa sono i cinesi”, perché se “il pensiero liberale ha liquidato il concetto di bene comune, non volendo nemmeno prenderlo in considerazione, affermando che è un’idea vuota, senza alcun interesse, i cinesi invece no, propongono lavoro e bene comune”, e così “la Cina sta assumendo una leadership morale che altri hanno abbandonato”. La Cina come guida morale mondiale sembra una barzelletta, un’immagine troppo grottesca per essere credibile, ma è funzionale alla linea anti-liberale di Bergoglio, il quale continua, imperterrito, nel suo martellamento contro il sistema socioeconomico capitalistico e nella parallela apologia della povertà come strumento eminente per avvicinarsi a Dio.
Ecco dunque le coordinate di questa linea geo-teo-politica: Argentina-Cina-Cuba-Venezuela. La venezuelizzazione dell’Argentina rappresenta il balzo in avanti dei vecchi e nuovi montoneros oggi alla guida del paese, il conseguimento di un livello di comunistizzazione che il decennio kirchnerista non era riuscito a imporre per due ragioni: perché i suoi leader (da Néstor e Cristina in giù) erano occupati più che altro a fare bottino, ad accumulare per sé tutto il denaro possibile con affari pubblici e privati, e perché, fino al 2013, ovvero fino all’entrata in scena di Bergoglio, avevano nel Vaticano quella contrarietà radicale che oggi invece si è trasformata in sponda totale.
Sul piano geopolitico, il futuro immediato dell’Argentina potrebbe consistere in un allineamento all’asse cinese-russo-iraniano; in una rottura, non clamorosa ma netta, con l’Occidente filo-statunitense; in una piena sintonia con l’Onu e soprattutto con le sue frange terzomondiste; in avventure economico-sociali che avranno come inevitabile conseguenza la distruzione di ciò che restava del tessuto produttivo e civile del paese. La benedizione di Bergoglio rappresenta il sigillo di questa operazione che dovrebbe controbilanciare la sterzata liberal-conservatrice di gran parte dell’America Latina, per stabilizzare istituzionalmente la politica della Chiesa latinoamericana, ormai completamente controllata dalla teologia della liberazione.
Come disse il cardinale cinese Joseph Zen Ze-kiun, uno che conosce molto bene i comunisti, in una memorabile intervista al New York Times, “Francesco può avere una naturale simpatia per i comunisti, perché per lui questi sono i perseguitati. Egli non li conosce come i persecutori che diventano una volta raggiunto il potere, come i comunisti in Cina”. Proprio da questa mancata comprensione sorge il rischio dello slittamento dell’Argentina verso un regime di stampo cubano o venezuelano.
Qui “l’opzione preferenziale per i poveri” incontra l’occasione storica offerta dalla pandemia: “povera umanità senza crisi, tutta perfetta, tutta ordinata; pensiamoci, sarebbe un’umanità malata […]. Questa pandemia ci ricorda che è tempo di rimuovere le disuguaglianze, di risanare l’ingiustizia che mina alla radice la salute dell’intera umanità. Cogliamo questa prova come un’opportunità per preparare il domani di tutti”, dice Bergoglio, cadendo in un lapsus colossale: approfittare della pandemia per imporre il bene che, certamente in buona fede, egli vede nella redistribuzione, ma che in realtà è un male generalizzato, perché l’opzione povertà implica la distruzione della società occidentale, la dissoluzione delle sue strutture economiche e culturali, la cancellazione della sua identità. E a sua volta il governo argentino, come un avvoltoio, sfrutta la pandemia come un’occasione per depredare le industrie, per far fallire e poi “recuperare” ovvero espropriare le aziende, avviando così la trasformazione socialista e pauperista del paese.
Dai messaggi, personali ma che la stampa ha parzialmente diffuso, di Bergoglio a Fernández emerge l’antica aspirazione a cambiare la società, i rapporti sociali, l’uomo stesso. La saldatura è perfetta, solida e quasi invisibile: non si potrebbe pretendere di meglio per un’azione ideologica che, per non spaventare le cancellerie occidentali, voglia apparire non come una rivoluzione ma come un’azione di giustizia sociale. Ma la recente svolta espropriativa rischia di essere l’inciampo che rompe l’ingranaggio. Se si tira troppo la corda, si rischia di romperla. Si inizia mettendo in discussione la proprietà privata, si prosegue abolendola e si finisce per collettivizzare tutto, non solo le imprese.
Una cospicua parte degli argentini, liberali, conservatori, ma anche centristi o progressisti moderati, tutti insieme stanno già reagendo con determinazione a questi soprusi antidemocratici e incostituzionali, con alcuni piccoli risultati come per esempio una frenata sugli espropri, ma non possono ragionevolmente pensare di riuscire a invertire una tendenza generale già in atto, perché non ne hanno i mezzi democratici (il Presidente è appena stato eletto e la maggioranza parlamentare è dalla sua parte) e perché altri mezzi non sono più all’orizzonte storico. Perciò hanno bisogno di appoggi internazionali, concreti ma anche simbolici.
Forse anche il Vaticano stesso potrebbe rendersi conto del rischio e frenare questa distruttiva corsa, anche se non si possono riporre soverchie speranze su questa ipotesi. Certamente però alcuni governi occidentali o almeno alcuni partiti politici presso il Parlamento europeo o presso parlamenti nazionali possono assumere iniziative concrete, in varie forme, per far sentire la voce del liberalismo e della democrazia a un governo palesemente illiberale e tendenzialmente dittatoriale. L’Europa, l’Occidente, il mondo libero cioè, dovrebbe immediatamente attivarsi, con ogni mezzo, per evitare che in Argentina si ripeta ciò che è accaduto (e accade) in Venezuela, per salvare un popolo e non solo un’economia. In questo senso, rivolgo una proposta al centrodestra italiano, affinché con una mozione parlamentare accenda un riflettore per illuminare quella zona d’ombra australe in cui un governo neocomunista sta facendo strame delle libertà primarie, della proprietà privata, del patrimonio che generazioni di imprenditori, in gran parte proprio di origine italiana, hanno prodotto con il loro lavoro e fatto fruttare per la crescita economica e sociale dell’Argentina.
Aggiornato il 12 giugno 2020 alle ore 12:30