Africa, il “soft power” cinese dietro gli aiuti per il Coronavirus

Dopo alcuni mesi di coronavirus è evidente che la manifestazione pandemica, nella sua tragicità, è anche un business. Non intrattenendomi sulle sempre più palesi “circostanze” che dietro la maschera della solidarietà e dell’emergenza, stimolano attenzioni prettamente “convenienti” a gruppi più o meno esposti della politica e degli affari, quella che viene definita, con dubbi, “la culla” della pandemia planetaria, la Cina, si sta occupando con enorme e strategico impegno della “salute” degli africani. La pandemia si sta rivelando come un grande vantaggio per gli attori economici cinesi che, tramite generose donazioni di materiali sanitari ai Paesi africani, e con una capillare e studiata azione comunicativa, intendono evidenziare la loro “grande sensibilità” in merito. È chiaro che dietro alle generose donazioni sussiste una promozione delle imprese cinesi.

La diplomazia di Pechino, tramite le numerose ambasciate e consolati dislocati nelle maggiori città africane, con raffinati sistemi comunicativi, agisce come “amplificatore” delle opere di aiuto sanitario distribuite a tappeto nel continente. I primi “tamburi comunicativi” iniziarono a risuonare già alla fine di marzo, quando con perfetta tempistica, entrò nel palcoscenico africano, con il costume da “salvatore”, il miliardario “filantropo” Jack Ma, fondatore del colosso cinese delle vendite online Alibaba, considerato nelle classifiche mondiali tra le prime venti potenze economiche. Jack Ma iniziò a finanziare le prime donazioni e a distribuire in tutto il continente gli aiuti al fine di fronteggiare la minaccia pandemica, utilizzando l’aeroporto di Addis Abeba e la “disinvolta” compagnia aerea Ethiopian Airlines, notoriamente svincolata, in “epoca Covid”, da ogni restrizione nei contatti soprattutto con la Cina. L’impressionante ponte aereo, che a medio regime collegava la capitale etiope con la Cina, con cinque voli al giorno, introduceva “salvificamente” in Africa, oltre che l’Alibaba Foundation, anche la Jack Ma Foundation, due organizzazioni di beneficenza realizzate dal finanziere cinese sulla linea delle fondazioni private occidentali, imitate con le stesse modalità operative, anche da altre società cinesi. Come sappiamo il radicamento di Pechino in Africa ha già causato uno sconvolgimento delle tradizionali linee strategiche dell’economia del continente, spostando i “disequilibri congeniti” africani, ben tollerati dalla sua economia, sugli equilibri imposti dalle imprese del “Levante”, che stanno caratterizzando, dal punto di vista socioeconomico, aree sempre più vaste dell’Africa. La “pressione economica” cinese in Africa, ma non solo, agisce in modalità “soft power”, come definito da Joseph Nye, questo “potere morbido” messo in campo da Pechino al servizio del suo stato e dei suoi interessi commerciali, è parte di una complessa manovra economica che va oltre le tradizionali forme di investimento a fine affaristico; infatti tale “operazione” oltre a radicarsi nel tessuto sociale e commerciale, si sviluppa occupando delle ben definite aree geografiche dove l’economia, la produzione, la lingua, le usanze, sono “levantine”, dando origine ad una sorta di “Cinafrica”. Infatti risulta che dal 2013 al 2018, lo sviluppo dei movimenti economici nella “Cinafrica” ha visto il commercio bilaterale moltiplicato in modo esponenziale, raggiungendo quasi i 190 miliardi di dollari e i flussi di investimenti annuali cinesi lievitarsi da 0,8 miliardi di dollari nel 2013 a, secondo i dati ufficiali, 5.4 miliardi di dollari nel 2018. Così la Cina ha raggiunto oggi nella scala degli investitori mondiali in Africa il quarto posto, dopo gli Stati Uniti, il Regno Unito e la prima della classe, la Francia.

Così vediamo che in Mali, le società cino-maliana Sukala e N-Sukala, e la società di costruzioni Covec, China Overseas Engineering Corporation, dopo avere fornito, la prima gel idrolitico e la seconda lettini sanitari, hanno implementato i loro contratti con Bamako. Anche in Sudafrica gli striscioni pubblicitari delle società cinesi, come della Bank of China, della One Gold Group, che si occupa di estrazioni minerarie, della Hisense, che fabbrica elettrodomestici, della Longyuan Mulilo Wind Project, produttore energia eolica, e ovviamente della Huawei, il colosso delle telecomunicazioni con aspirazioni in 5G, campeggiano in tutte le occasioni in cui si inaugurano centri di cura o donazioni di strumenti anti Covid19, giocando i loro affari con l’esibizione della generosità anche sui principali media.   

Per concludere anche nella vicina Algeria, Pechino pubblicizza la sua generosità: la società Cscec, China State Construction Engineering Corporation, aggiudicataria del nuovo appalto per l’ammodernamento dell’aeroporto di Houari-Boumediene e della Grande Moschea di Algeri, come la società Crcc, China Railway Construction Limited, leader nella costruzione di infrastrutture per la viabilità, fanno sfoggio con manifesti e pubblicità mediatiche, dei loro aiuti al popolo algerino nella battaglia contro la pandemia.

Tuttavia alla popolazione più attenta tali coincidenze non sono sfuggite; le donazioni di respiratori, di kit di diagnosi, delle mascherine, delle tute protettive, e di ogni altra attrezzatura medica, ai Paesi africani interessati dalla pandemia, celebrate con pompose cerimonie, non esaltano solo la generosità e la pseudo “amicizia tra i popoli”, ma “sponsorizzano” società ed aziende nella fattispecie cinesi. Comunque va detto che questi “interessati filantropi” e “benefattori cinesi”, associati ufficialmente agli uffici della diplomazia levantina in africa, sono coloro che effettivamente immettono sul mercato “soldi veri”.

Aggiornato il 25 maggio 2020 alle ore 11:38