Gli iraniani ancora in piazza e ci saranno ancora fino alla conquista della agognata libertà. Il regime, dal canto suo, non darà altra risposta che la sanguinosa repressione e le consuete calunnie, mentre i coraggiosi donne e i giovani persiani riempiono le piazze delle città rivendicando il loro diritto alla vita e alla loro dignità. Hanno imparato che per ottenerlo c’è un solo modo: il cambio di regime, superando il duetto “riformisti-conservatori” che si riunifica ogni volta contro la volontà democratica del Paese. Come siamo arrivati alla rivolta? Dopo pochi mesi dall’insediamento della Repubblica islamica in Iran una buona parte di iraniani, delusi dalle promesse che Khomeini lanciava da Parigi, ha maturato la volontà di un nuovo cambiamento radicale nel Paese. La rivolta degli iraniani di questi giorni non è un fulmine a ciel sereno, ha radici profonde.
La libertà per tutti promesse da Khomeini è stata sostituita, fin da subito, da restrizioni puntuali e violente, dove contavano solo la parola dei nuovi potentati e i bastoni e le mitragliatrici dei loro scagnozzi. La risposta ad ogni cenno di protesta era solo carcere, torture e fucilazioni: 120mila le fucilazioni di dissidenti, perfino di tredici e i quattordici anni. Tutto questo ha generato sicuramente una paura generale nella società, testimone di una repressione mai vista, ma nello stesso tempo ha prodotto un malcontento diffuso che diventava rabbia. I nuovi arrivati, con avidità inusitata, hanno estromesso in pratica la stragrande maggioranza dei cittadini dagli affari del loro Paese e l’ha trascinata in una povertà assoluta. La base della popolazione iraniana in questi anni è stata sempre pronta a ribaltare la dittatura dominante che le aveva tolto, oltre alla dignità, il pane e il futuro dei loro figli. Ogni scintilla e pretesto sono stati buoni per la gente dell’Iran per esprimere la sua rabbia, ma la risposta è stata sempre una violentissima repressione. La nuova dittatura ha costruito il regime negli alvei della rabbia popolare, indifferente e ignara dell’alluvione che sarebbe arrivata in ogni caso. Perché si può mantenere in catene una società con la paura solo per un tempo limitato. La gente può essere portata all’indifferenza, come arma di difesa, ma non per sempre.
Ora i persiani non hanno più paura, scendono in strada e non hanno altro da perdere che le loro catene. Perché il regime ha tolto loro anche la parvenza del benessere e della sicurezza, dandogli angoscia. Il regime teocratico ha messo l’Iran sul lastrico. La cittadina di Durud, nella regione di Lorestan, luogo delle durissimi contestazioni, negli ultimi anni sembrava una città spettrale uscita da un bombardamento nucleare dove i bambini vagavano tra la polvere. Ora la rivolta è scoppiata in più di 120 città iraniane e le richieste economiche sono mutate in politiche, guidate da una leadership e una rete per ora invisibili. La rivolta non ha intenzione di rientrare, anche se la strada non né corta né agevole. La rivolta è dei diseredati di cui il regime prometteva di prendersi cura, ma ha fallito del tutto. I sedicenti moderati o riformisti non sanno proprio chi siano questi rivoltosi.
La rivolta è scoppiata per il carovita, ma i “diseredati” hanno imparato sulla loro pelle che questo regime non potrà mai dare loro una risposta. E se molti giornalisti occidentali hanno incentrato la loro inchiesta sull’alta concentrazione di automobili di lusso nei quartieri a nord di Teheran, nel paese reale la situazione era altra. Secondo le statistiche della Banca mondiale Iran il prezzo medio dei generi di prima necessità dal 2000 al 2016 è aumento del 1.250%, cioè cinque volte di più della media mondiale che è del 250 per cento. Dall’insediamento del regime dei mullà in Iran la popolazione del Paese ha avuto un crescita di 2 volte e mezzo, mentre l’aumento del numero dei giovani con età tra i 15 e i 24 anni è quintuplicato. Questo spiega il fatto che l’età media degli arrestati di questi giorni è meno di 25 anni; questi giovani nati nella Repubblica islamica hanno subito solo indottrinamenti morali e repressioni, mentre con oltre il 40% di disoccupazione sono tenuti fuori dall’economia del Paese. Se si pensa che in Iran chi lavora almeno un’ora a settimana è considerato occupato, in nove mesi dopo l’accordo nucleare il tasso di disoccupazione è passato dal 10,7% al 12,7%. Allora è comprensibile quando i manifestanti gridano “la gente chiede l’elemosina, i mullà se la passano da Dio”. Per mettere in moto l’economia del Paese, secondo i pareri degli esperti, ci vogliono almeno 50 miliardi di dollari di investimenti annui. Dopo l’accordo nucleare del 2012 finora ci sono stati solo 11 miliardi di investimento, di cui 5 miliari riguardano il mega contratto della Totale che è ancora in forse. Nel bilancio del governo di Rouhani per il 1397, anno iraniano con l’inizio 21 marzo, mentre viene eliminato il sussidio ad oltre 34 milioni di persone e alcune materie di prima necessità come la benzina avranno un rincaro del 50%, pare ora rientrato, il budget militare ha avuto un sostanzioso aumento.
In questa situazione drammatica, il regime teocratico non ha altra scelta che reprimere, ma la rivolta per la fame ha una sua atavica forza, non si ferma, semmai si radicalizzerà. Il regime sa di non potere retrocedere, perché le pretese crescono. La forza dei manifestanti è espresso negli slogan “abbasso Khamenei, abbasso Rouhani”, e in “Eslahgra, Usulgra, dighe tamun-e majara!”; riformisti, oltranzisti, siete al capolinea! La fine dell’illusione dei “diseredati” sarà fatale per la teocrazia del Paese dei persiani. La rivolta ha tutta l’aria di diventare una rivoluzione, e la sua leadership sarà nelle mani di chi illuso non lo è stato.
Aggiornato il 09 gennaio 2018 alle ore 08:15