La tensione nei rapporti tra Turchia e Stati Uniti ha conosciuto una nuova impennata con il blocco reciproco nel rilascio dei visti. Causa di questo nuovo capitolo della querelle tra i due Paesi, l’arresto, avvenuto recentemente, di un dipendente turco del Consolato Usa a Istanbul che, secondo le autorità turche, apparterrebbe alla rete di Gulen, il predicatore islamico ritenuto l’ispiratore del fallito golpe del luglio 2016 contro Recep Tayyip Erdoğan.
L’Ambasciata Usa ad Ankara ha affermato che “gli avvenimenti recenti hanno indotto il governo americano a riesaminare l’impegno della Turchia per la sicurezza dei servizi e del personale nel Paese. Per ridurre al minimo il numero dei visitatori mentre è in funzione il provvedimento, è stato sospeso il rilascio dei visti a tutti i non immigrati”. In risposta, il governo turco ha sospeso il rilascio dei visti per i cittadini statunitensi, diffondendo una nota ufficiale che ricalca ironicamente le parole utilizzate da quello Usa.
Lo scontro in corso ha avuto anche dei risvolti economici, con gli indici della Borsa di Istanbul che hanno segnato diverse negatività, mentre la lira turca ha perso fino a circa il 3 per cento nei confronti del dollaro. Questi dati hanno suscitato agitazione negli investitori stranieri che detengono bond turchi, già perplessi sull’affidabilità della lira turca a causa dello stato di emergenza in vigore da tempo nel Paese e della polarizzazione politica.
Tra Ankara e Washington è in atto da tempo uno scontro diplomatico legato alla figura di Fetullah Gulen, religioso un tempo sostenitore di Erdoğan e poi entrato con lui in contrasto. Attualmente vive in autoesilio in Pennsylvania dal 1999. Ritenuto negli ambienti turchi la mente del golpe del 2016, ne è stata richiesta da Erdoğan l’estradizione sia ai tempi della presidenza di Barack Obama che all’attuale di Donald Trump, ottenendo un costante rifiuto.
Le relazioni tra i due Paesi si erano inoltre già deteriorate dal 17 maggio 2017, quando, nei pressi della residenza dell’ambasciatore turco a Washington, alcuni manifestanti curdi erano stati feriti nel corso di scontri con gli agenti del servizio di sicurezza del presidente turco Erdoğan, in visita negli Stati Uniti. Si trattava di simpatizzanti del partito curdo Pyd e di attivisti armeni ostili alla politica di Erdoğan. In seguito a tali fatti ben 22 agenti del servizio di sicurezza sono stati incriminati e due di questi arrestati per essere successivamente processati dai giudici americani. Questo episodio si aggiunge agli attriti già nati con gli Stati Uniti sul nodo cruciale della “Questione curda” e della “Cooperazione in Siria”.
La Turchia fa parte della coalizione internazionale a guida Usa nella guerra con l’Isis, cui ha offerto la strategica base aerea di Incirlik. Ankara ritiene fondamentale evitare la creazione oltreconfine di un’enclave curda, per evitare un effetto domino nei suoi territori. Al contrario, gli Stati Uniti sostengono l’azione dell’Unità di Protezione dei Popoli Kurdi (Ypg), ritenuta dalla Turchia l’espressione siriana del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), quindi una organizzazione terroristica.
La diversa valutazione sul ruolo delle forze curde e degli eventuali successivi loro compiti alla fine del conflitto non ha certamente aiutato a stemperare il crescente sentimento antiamericano che si avverte in Turchia, e di contro, non ha ridotto la sfiducia che gli ambienti governativi e militari americani nutrono verso le autorità turche. Questi eventi alimentano una persistente tensione tra i due Paesi e la “Guerra dei visti” ne è una conseguente espressione.
(*) Associate analyst think tank “Il Nodo di Gordio”
Aggiornato il 31 ottobre 2017 alle ore 11:14