Una coalizione per i diritti umani in Iran

“La situazione dei diritti umani in Iran continua ad aggravarsi. Auspichiamo una maggiore attenzione internazionale sul tema per tentare di sensibilizzare le autorità politiche iraniane. L’Italia, essendo uno dei partner occidentali più importanti per l’Iran, potrebbe svolgere un ruolo fondamentale in questa dinamica”.

Con queste parole, Mahmood Amiry-Moghaddam, esule iraniano in Norvegia (dove è professore di Neuroscienza all’Università di Oslo), fondatore di Iran Human Rights (Ihr), ha aperto un incontro tenutosi presso la sede nazionale della Lidu a Roma. Al dibattito, insieme con il presidente della Lidu Antonio Stango e con Eleonora Mongelli del Comitato esecutivo, hanno preso parte fra gli altri gli onorevoli Pia Locatelli (presidente del Comitato permanente sui Diritti umani della Camera dei deputati) e Roberto Rampi, la presidente di Ihr Italia Cristina Annunziata, il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury, il rappresentante presso l’Onu a Ginevra della coalizione di Ong Impact Iran Glenn Payot e il portavoce della rete “In difesa di”, Francesco Martone.

Particolare attenzione è stata dedicata alla questione della pena di morte. Il numero di esecuzioni capitali in Iran continua ad essere altissimo; ma, se durante la presidenza di Mahmud Ahmadinejad (2005-2013) l’argomento riceveva frequente attenzione mediatica, con quella del suo successore Rouhani i mass media sembrano essersene relativamente disinteressati senza una valida giustificazione: infatti, nel 2015 sono stati 972 i condannati a morte giustiziati, molti di più che in ciascuno dei precedenti 11 anni. Sebbene nel 2016 ci sia stato un calo delle esecuzioni, questo progresso non è indicativo di un effettivo miglioramento strutturale del sistema giudiziario iraniano, visto che 140 persone sono state giustiziate solo nei primi due mesi del 2017.

In più, l’Iran continua ad essere tra i Paesi con il più alto numero di reati punibili con la pena capitale al mondo. Tra questi, oltre all’omicidio premeditato (classificabile come uno dei “delitti gravi” per i quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici non vieta esplicitamente la pena di morte), vi sono l’adulterio, l’incesto, lo stupro, la sodomia, la vendita e l’acquisto di sostanze stupefacenti, nonché il “portare guerra a Dio” – accusa che può coprire molti comportamenti. Secondo il sistema giudiziario iraniano, alcuni di questi reati non vengono giudicati dai tribunali penali ordinari, ma dalle Corti rivoluzionarie islamiche, che amministrano la giustizia in maniera arbitraria, non garantendo un giusto processo.

Le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle Corti rivoluzionarie sono uno dei punti focali del lavoro di Ihr e di Impact Iran. Infatti, dal 2010 circa 3200 esecuzioni sono state effettuate sulla base di sentenze emesse dalle Corti rivoluzionarie, così come il 64 per cento delle esecuzioni del 2016. A questo si aggiunge il ruolo che le Corti giocano nella repressione degli attivisti per i diritti umani. Come afferma il dottor Amiry-Moghaddam, “una riduzione effettiva nell’uso della pena capitale è impossibile da ottenere finché non ci saranno processi equi e le Corti rivoluzionarie, che condannano a morte centinaia di persone ogni anno, sono tra le istituzioni che maggiormente violano le regole di un giusto processo. Per questo motivo devono essere abolite”. Inoltre, l’Iran continua ad effettuare impiccagioni anche in pubblico, in piazze o stadi.

Un’altra questione di cui si è discusso durante l’incontro concerne il gran numero di esecuzioni capitali di minorenni o di persone che lo erano al momento del reato, in violazione della Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo. Secondo Ihr, tali esecuzioni – che sono continuate quest’anno – sono state almeno 50 tra il 2008 e il 2016; secondo Amnesty International, 73 tra il 2005 e il 2015. Per il Codice penale islamico iraniano (Cpi), l’età minima per perseguire penalmente una persona è stata fissata sulla base della sharia: le ragazze e i ragazzi sono perseguibili per “crimini contro Dio” una volta compiuti rispettivamente nove e quindici anni. Un temperamento della rigidità della legge islamica è previsto dall’articolo 91 del Cpi, come riformato nel 2013, secondo il quale un minore di anni 18 può non essere condannato alla pena capitale se il giudice ritenga che il colpevole non abbia un’adeguata maturità mentale e un’accurata capacità di raziocinio. Inoltre, nel 2014 la Suprema Corte Iraniana ha confermato la possibilità per i minorenni condannati di chiedere un nuovo processo (cosa che è fra le minime garanzie di civiltà giuridica secondo il Diritto internazionale). Tuttavia, nella pratica giudiziaria, come ha fatto notare il portavoce di Ihr, l’articolo 91 è applicato in maniera arbitraria.

In generale, le sentenze di condanna a morte emesse dalle Corti Rivoluzionarie sono per oltre il 50 per cento per reati connessi alla droga e al suo traffico, con 2990 esecuzioni tra il 2010 e il 2016. Alcuni rapporti ottenuti da Ihr dimostrano che chi viene arrestato per motivi legati al traffico o all’utilizzo di stupefacenti viene sistematicamente sottoposto a tortura e abusi nelle settimane successive all’incarcerazione. Spesso, una volta arrestati, gli accusati non hanno accesso immediato a un’assistenza legale, che viene fornita solo dopo la loro confessione ed è resa quasi inutile dalla brevità e dal pressapochismo dei processi davanti alle Corti rivoluzionarie.

Nel 2015, 75 membri dell’Assemblea Consultiva islamica iraniana (chiamata anche impropriamente “Parlamento”) hanno presentato una proposta di legge per ridurre l’uso della pena di morte nei casi di droga. L’emendamento è stato approvato nel 2016, lanciando un segnale positivo alla società civile e alla comunità internazionale. Nonostante questo, nel suo rapporto annuale Ihr ha evidenziato che l’emendamento non ha avuto l’efficacia sperata. Grazie a fonti interne, l’associazione ha potuto riscontrare un notevole scarto tra le esecuzioni capitali pubblicamente dichiarate (12) e quelle realmente effettuate (204).

I rappresentanti di Impact Iran hanno chiesto quindi di studiare i meccanismi della cooperazione tra Iran e Italia nella lotta al narcotraffico e, in particolare, un recente accordo tra polizia italiana e iraniana, del quale non è chiaro l’effettivo contenuto. La riunione si è conclusa con la conferma della necessità di sensibilizzare la società civile e le autorità italiane e internazionali sul tema dei diritti umani in Iran, con l’auspicio che questo sia maggiormente trattato – anche grazie all’interazione fra le Ong della coalizione, la Lidu e i parlamentari interessati – in sede di rapporti politici e diplomatici.

(*) Ricercatori della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo  www.liduonlus.it

Aggiornato il 21 settembre 2017 alle ore 21:36