È ora di smetterla di trattare i palestinesi come dei bambini

È ora che la comunità internazionale cominci ad affrontare alcune realtà riguardo ai palestinesi, realtà che fino ad ora ha deciso di evitare. I recenti avvenimenti in Medio Oriente, tra cui la barbara uccisione di due poliziotti israeliani e di tre membri di una famiglia israeliana, e le favolette che girano riguardo al monte del Tempio a Gerusalemme, illustrano bene la questione. A proposito, e a scanso di equivoci, ci tengo a chiarire che chi scrive è rappresentante di un’organizzazione, l’Ajc, da tempo impegnata nella ricerca di un accordo duraturo basato su due stati, per la coesistenza tra musulmani e ebrei e per legami amichevoli con i Paesi arabi moderati. In questo campo, l’Ajc detiene un curriculum unico al mondo. Tuttavia, molti tra gli osservatori della regione sono ossessionati da Israele e da cosa dovrebbe (e non dovrebbe) fare, mentre sembrano non accorgersi dell’altro lato dell’equazione: cosa dovrebbero (e non dovrebbero) fare i palestinesi?

Ecco cinque cose che potrebbero mettere fine alla infantilizzazione dei palestinesi e, forse, creare un clima più consono ad un processo di pace, da tempo carente. Innanzitutto, come possiamo parlare seriamente di un accordo a due stati quando i palestinesi stessi sono divisi tra Gaza e Cisgiordania?

Ci tengo a ricordare che quando nel 2005 Israele ritirò le sue truppe e i coloni lasciarono Gaza, diede la possibilità ai palestinesi, per la prima volta nella Storia, di governare se stessi, cosa che né gli egiziani né qualunque altro Paese occupante prese mai in considerazione. E cosa avvenne? Nel 2007 prese il potere Hamas, considerata un’organizzazione terroristica sia dall’Unione europea che dagli Stati Uniti, e l’Autorità Palestinese fu espulsa fisicamente. Da allora il presidente dell’Autorità Palestinese Abbas non ha mai messo piede a Gaza. E allora tutto questo parlare di due Stati potrebbe tranquillamente riferirsi a tre, di Stati. Non può essere Israele a risolvere il problema di questa divisione. Possono farlo solo i palestinesi, magari con l’aiuto del mondo arabo e non solo di quello. Ma lo faranno?

Secondo, ogni volta che sentiamo parlare di Gaza, sentiamo parlare sempre di “campi profughi”. Ma ci siamo mai chiesti perché esistono campi profughi a Gaza?

Sono 12 anni che Israele ha lasciato la striscia di Gaza. Per quale motivo vengono tenuti in piedi questi campi, che servono solo a tramandare di generazione in generazione il concetto di un popolo sfrattato che brama per il suo “ritorno”. Ritornare dove? Si presume in Israele. E questa sarebbe la fine dello Stato Ebraico. Ultime notizie: I palestinesi non sono la prima popolazione di rifugiati della Storia, neanche lontanamente. E non sono neanche l’unica popolazione di rifugiati nata dal conflitto israelo-palestinese. Quasi un milione di ebrei furono cacciati dalle loro case nei Paesi arabi, ma praticamente tutti riuscirono a costruirsi un nuova vita altrove, invece di rimanere a languire nei campo profughi all’infinito. I palestinesi sono però sicuramente i primi ad essere designati ufficialmente dalle Nazioni Unite come “rifugiati perpetui”, titolo che passerà ai loro figli e ai figli dei loro figli. Per quanto tempo ancora avranno questo status, unico nel pianeta? Non sarebbe meglio che questo status decada prima o poi, in modo che possano cambiare il modo di pensare e possano scomparire questi campi, che servono solo da incubatrici di odio e di vendetta?

In fondo, molti di noi provengono da famiglie di rifugiati, ma ad essere un rifugiato è chi ha perso la loro casa, non a tutti i suoi discendenti. Terzo, perché la comunità internazionale non è più coraggiosa nel chiedere che i palestinesi si prendano la responsabilità delle proprie azioni? Ad esempio, i palestinesi avrebbero potuto avere il loro Stato in varie occasioni tra il 1947 e il 2017, eppure hanno rifiutato ogni opportunità. Non è un’opinione, è un fatto. Ovviamente, il prezzo da pagare era quello di riconoscere il diritto di Israele ad esistere come nazione autonoma a fianco dello Stato di Palestina, un prezzo che non hanno voluto pagare.

Quindi, mentre Israele ha sviluppato il proprio pensiero ed ha accettato il nazionalismo palestinese, non c’è stato nessun movimento analogo dal lato palestinese che abbia accettato l’autodeterminazione ebraica, in quanto complementare alla loro. Oltretutto, i palestinesi lanciano attacchi terroristici contro Israele, di cui la testimonianza più recente è l’uccisione di tre persone ad Halamish la scorsa settimana, e poi premiano gli assassini e le loro famiglie con generose ricompense. Si stima che nel 2017 i palestinesi spenderanno 300 milioni di dollari a questo scopo. Ricordiamocelo la prossima volta che qualcuno si domanda perché non vengono costruite nuove scuole ed ospedali in Cisgiordania.

Se questa è un strategia, è la strategia giusta per arrivare al tavolo dei negoziati? È una strategia che aiuta a dissipare le legittime preoccupazioni israeliane per la propria sicurezza, e che dimostra che esiste un vero partner per la pace pronto a sedersi al tavolo dei negoziati per un accordo definitivo? E tutto l’incitamento all’odio che circonda questi attacchi, i richiami alla “morte agli israeliani”, “morte ai sionisti”, “morte agli ebrei”, aiuta forse a creare un clima adatto alla fiducia e al compromesso?

Quarto. La credenza popolare palestinese che gli ebrei sono “stranieri”, “intrusi”, “colonialisti” e “crociati” deve essere affrontata. Gli ebrei sono indigeni della regione. Il legame storico, antichissimo, tra gli ebrei e quella terra è documentato e innegabile. Eppure fin troppi Paesi si ostinano a credere a questa storiella, come dimostrato ad esempio dalle recenti votazioni all’Unesco ed al Comitato per il Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Negare il legame tra gli ebrei e Gerusalemme equivale a negare il legame tra i musulmani e la Mecca o i cattolici e Roma. È ridicolo, eppure accade di continuo. Ed è da notare che Paesi come la Svezia e il Brasile mettono in gioco la propria credibilità quando prendono parte a queste mascherate. Assecondare i palestinesi nelle loro fantasie gli consente di vivere in un universo parallelo dove Israele non esiste, o se esiste, è solo un fenomeno “temporaneo e illegittimo”.

E quinto, il mondo dovrebbe dirlo chiaramente: il terrorismo è terrorismo, è inaccettabile. Prendiamo l’Europa ad esempio. Paesi come la Francia e il Belgio sono stati bersaglio di stragi terroristiche. E hanno risposto come dovevano: con uno sforzo concertato, senza esclusione di colpi, per stanare i colpevoli e i loro network di supporto, ed affermando “tolleranza zero” per questo genere di brutalità.

Ma quando si tratta di attacchi contro israeliani il linguaggio cambia, a volte in maniera sottile, altre volte in maniera plateale. Ci tocca sentire spiegazioni, contestualizzazioni, razionalizzazioni, richiami a risposte “moderate” da parte israeliana. Si sentono frasi come “spirali di violenza”, come se nessuno possa sapere, o gli possa importare, chi ha usato violenza per primo, come se fosse una litigata tra bambini dell’asilo, in cui la maestra non si cura di fare distinzioni tra gli alunni.

Eppure, sicuramente deve esserci una distinzione netta tra piromane e vigile del fuoco, tra democratico e despota, come accade in Europa e in altri luoghi quando avvengono mostruosità del genere. Altrimenti, la nebbia morale sostituisce la chiarezza morale. Smettere di trattare i palestinesi come bambini, e iniziare a considerarli responsabili delle proprie azione, potrebbe essere un passo avanti per il processo di pace.

(*) Ceo dell’American Jewish Committee

Aggiornato il 01 agosto 2017 alle ore 19:57