Quanto durerà la luna di miele fra Usa e Russia, questa volta? La domanda è ricorrente, praticamente una volta ad ogni cambio di presidente degli Stati Uniti da quando è finita l’Unione Sovietica. L’elezione di Donald Trump apre una nuova fase di distensione con Vladimir Putin. Il Cremlino non poteva sperare in un candidato migliore. Probabilmente ha anche attivamente aiutato questa “speranza”, se è vero (come ipotizzano i servizi statunitensi) che la Russia ha interferito con queste elezioni, con metodi di spionaggio elettronico sempre più raffinati. Trump ha espresso gratitudine per l’apprezzamento ricevuto da Mosca, la Duma russa ha brindato per la sua vittoria, il presidente russo si è immediatamente congratulato con il vincitore, i due si sono sentiti molto presto. Dal punto di vista russo, Trump è utile perché è l’unico candidato americano che abbia messo in discussione l’articolo 5 della Nato (mutua difesa in caso di aggressione esterna a un membro dell’Alleanza). Dunque è potenzialmente un presidente che può lasciare carta bianca alla Russia in Europa. L’effetto Trump si è subito visto nelle nazioni dell’Est europeo: le elezioni in Bulgaria e in Moldova sono state vinte da partiti filo-russi, mentre in Estonia il rimpasto dell’esecutivo ha portato al governo il partito di Centro, che rappresenta gli interessi della minoranza russa nel piccolo Paese baltico. Ma, appunto, quanto durerà?
La prima considerazione è storica. Se il passato recente serve a qualcosa, possiamo vedere che ad ogni fase di distensione iniziale è seguita una tensione più forte della precedente. L’amministrazione Bill Clinton è stata la prima eletta in tempi post-sovietici. Quando il presidente democratico entrò in carica, nel gennaio del 1993, i rapporti con il primo presidente della Russia indipendente, Boris Eltsin, erano eccellenti. Rimasero tali fino al 1994, quando gli Usa condannarono politicamente la repressione armata dell’indipendentismo ceceno, poi quando gli Usa intervennero (assieme alla Nato) in Bosnia, contro le milizie serbo-bosniache nel 1995 e infine lo zenit della tensione venne toccato nel 1999, quando la Nato intervenne nel conflitto del Kosovo. Entrambe le parti si sentirono tradite. Da un punto di vista statunitense, la Russia tradì la sua promessa di democrazia con la guerra in Cecenia. Poi tradì la promessa di condividere lo stesso progetto di salvaguardia di un ordine mondiale democratico a causa della sua opposizione agli interventi nei Balcani. La Russia stava di fatto coprendo politicamente un genocidio in atto (in Bosnia) ed uno potenziale (in Kosovo) e dunque non era più possibile considerarla come secondo pilastro dello stesso sistema internazionale. Da un punto di vista russo, gli Usa tradirono la promessa (mai scritta, per altro) di lasciare in Europa centrale un’area neutrale. L’adesione alla Nato dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia fu vissuta come una pugnalata alla schiena dall’opposizione nazional-comunista russa e come una concessione da accettare a denti stretti dallo stesso Boris Eltsin. Infine, i bombardamenti su Belgrado nel 1999 fecero definitivamente naufragare l’amicizia fra Usa e Russia.
Nel 2000, quando George W. Bush si presentò alle elezioni come candidato repubblicano, era lui l’uomo della Russia, mentre il suo avversario Al Gore era il continuatore della politica di Clinton, considerata quella più “guerrafondaia” (e già allora si parlava sui giornali di “nuova guerra fredda”). La nuova luna di miele con la controparte russa (Vladimir Putin era subentrato a Eltsin solo pochi mesi prima) durò appena tre anni. Ebbe il suo momento più alto dopo l’11 settembre, venne consacrata con l’incontro a Pratica di Mare nel 2002, ma poi si concluse meno di un anno dopo, a seguito del conflitto in Iraq del 2003, quando la Russia si oppose all’intervento statunitense contro un regime suo alleato storico. Nel 2007 si parlava ancora di “nuova guerra fredda”, a causa dell’opposizione russa al progetto di dispiegamento dello scudo anti-missile americano in Europa. Nel 2008, con l’invasione russa della Georgia, le relazioni arrivarono al punto più basso.
Nel 2008, quando Barack Obama si presentò alle elezioni come candidato democratico, era lui l’uomo della Russia, mentre il suo avversario John McCain era il continuatore della politica di Bush, considerata quella più “guerrafondaia”. La ripetizione della storia era perfetta, anche se a parti rovesciate. Quel che successe dopo, seguì esattamente lo stesso copione. Luna di miele dal 2009 (il momento del “reset” e “restart” delle relazioni) al 2011, poi freddezza (sulla Libia e sulle Primavere Arabe), infine crisi e “nuova guerra fredda” dal 2013 (crisi siriana, rivoluzione in Ucraina e occupazione russa della Crimea nel marzo 2014). E di nuovo si parla di “nuova guerra fredda”.
In questo 2016, l’uomo della Russia è un repubblicano, come lo era Bush nel 2000. La parte del “guerrafondaio”, stavolta, l’ha giocata la candidata democratica. Di nuovo i ruoli si sono invertiti, ma la partita è sempre la stessa di sempre, dal 1993 ad oggi. E’ possibile che stavolta la luna di miele duri un po’ più dei soli 2 o 3 anni? Tutto è possibile, ma già si intravvedono delle difficoltà all’orizzonte che possono far scoppiare di nuovo la “nuova guerra fredda”. La pietra d’inciampo sarà difficilmente in Europa, che Trump non conosce e, tutto sommato, disprezza. La pietra d’inciampo, stavolta, può essere Israele. Uno dei piatti forti della campagna elettorale del nuovo presidente è la fine dell’accordo sul nucleare iraniano e la conseguente ricucitura dei rapporti con Gerusalemme. Ma l’Iran è il principale alleato della Russia nel Medio Oriente. O Trump rinuncia alla luna di miele con la Russia, o rinuncia a Israele. Difficili entrambe le scelte.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:09