C’è un terzo “incomodo” che oggi spicca nei sondaggi, tra i litiganti Hillary Clinton e Donald Trump. Ed è l’ex governatore del New Mexico, Gary Johnson. Candidato con il Libertarian Party, Johnson è noto per le sue posizioni a favore della legalizzazione delle droghe leggere, della riduzione estrema delle tasse e della limitazione dell’intervento dello Stato su tutti gli aspetti della vita civile. Johnson è inoltre un fervido sostenitore di una politica militare non interventista, contrario alle azioni nei regimi stranieri ed a favore dell’uso dell’esercito solo in caso di difesa. Un candidato che faceva comizi con t-shirt con il simbolo della pace mentre parlava di Stato minimo e riduzione delle imposte. Posizioni radicalmente “libertarian” ma che collocano il candidato tra le simpatie di democratici e repubblicani scontenti dei rispettivi candidati nazionali. Forse è anche per questo che Gary Johnson sta letteralmente spiccando il volo nei sondaggi.
L’ultimo, quello del “Washington Post”, lo vede infatti oltre il 15 per cento in 10 Stati e oltre il 10 per cento in 42 Stati. Con picchi di oltre il 25 per cento nel New Mexico, dove Johnson è stato governatore per due mandati. Una scalata al consenso del tutto inaspettata visto che Johnson, non nuovo alle competizioni presidenziali, nel 2012 aveva corso come indipendente, raccogliendo poco più dell’1%. Una crescita che può essere interpretata come il risultato di due nomination, quella Repubblicana e quella Democratica, talmente tanto polarizzate ed estreme, da aver spinto sostenitori dell’uno e dell’altro partito a convergere su un candidato indipendente.
Hillary Clinton è poco amata dalla componente più radicale del suo partito, che aveva sostenuto Bernie Sanders nella competizione interna al Partito Democratico. Il suo profilo è considerato poco genuino, espressione di poteri e di lobby distanti dagli occhi puri, e forse un po’ ingenui, dei supporter più idealisti. Al tempo stesso, Donald Trump non può essere definito un candidato “convenzionale” per i canoni repubblicani. Le sue posizioni su politica estera, Nato, commercio internazionale e le sue affermazioni sulle donne e gli immigrati non sono state apprezzate da molti repubblicani. Tra questi, non solo comuni attivisti o sostenitori, ma anche gruppi ed associazioni di rilievo nazionale. Uno dei più eclatanti “edorsement” mancati è stato quello dell’Associazione Repubblicana degli Studenti di Harvard, che per la prima volta in 128 anni ha fatto sapere alla stampa di “non sostenere il candidato scelto dal Partito Repubblicano” e, in una nota infuocata, ha ribadito l’inconciliabilità tra i valori del Partito Repubblicano e la candidatura di Donald Trump.
Se Trump perdeva sostenitori istituzionali, Gary Johnson iniziava a guadagnarne già dalla scorsa primavera, da giornali come il “Richmond Times” a imprenditori, come il Ceo di “Whole Food” John Mackey, passando per intellettuali considerati tipicamente “repubblicani” come Ed Crane, co-fondatore del Cato Institute, uno dei più famosi Think tank statunitensi. Per Johnson è venuto il tempo di fare il vero salto, e partecipare ai dibattiti presidenziali. Unica, vera occasione per acquistare popolarità e aumentare il proprio consenso elettorale a livello nazionale. Dal 1960 ad oggi, ogni singolo dibattito presidenziale è stato caratterizzato dalla presenza dei soli due sfidanti, repubblicano e democratico. Una sola eccezione avvenne nel 1992, con l’introduzione di un terzo candidato indipendente, l’imprenditore Ross Perot, che riuscì a ottenere in sede di elezioni il 19 per cento dei consensi nazionali. Johnson è stato fino ad ora escluso dai dibattiti che si terranno in autunno, scatenando un certo dibattito sui social network.
Da più parti si chiede che Gary Johnson possa partecipare al dibattito, rappresentando ormai una forza non più minoritaria come nel 2012. Gli sforzi dell’ex governatore si concentreranno tutti in queste prossime due settimane, tra campagne spot in tivù e incontri pubblici, l’ex governatore spera di arrivare a quel 15 per cento di consenso nei sondaggi, in tutti i 50 Stati. Percentuale che rappresenta la soglia minima per la partecipazione ai dibattiti nazionali, e che gli consentirebbe di raggiungere a livello mediatico gli indecisi (circa il 6 per cento a livello nazionale) e la minoranza a sostegno dell’altra candidata indipendente Jill Stein, leader del Green Party, ad oggi data intorno al 4 per cento a livello nazionale.
Intanto, l’hashtag #LetGaryDebate è esploso su Twitter, i bersagli? Il presidente della Commissione dei Dibatti Presidenziali, ma anche televisioni, giornali e rettori universitari. Una piccola battaglia di libertà che premia gli sforzi di un partito che, nonostante gli scarsi risultati elettorali, non si è mai davvero arreso.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:07