Il dibattito per le presidenziali americane sta prendendo una strana piega. Donald Trump, favorito nei sondaggi anche nelle elezioni primarie della South Carolina è il più a destra fra i candidati repubblicani, tanto che da più parti lo chiamano “fascista”. Ma forse è talmente a destra che inizia a usare argomenti di sinistra, soprattutto contro il suo rivale diretto, Jeb Bush, fratello minore dell’ex presidente George W.
Trump attacca direttamente l’eredità dei Bush usando gli argomenti più cari alla sinistra liberal: l’11 settembre e la guerra in Iraq. Il miliardario newyorkese non arriva a sostenere le teorie cospirative sull’11 settembre (anche se qualche commentatore ritiene che, talvolta, si lasci andare a parlarne), ma incolpa Bush per gli errori di intelligence che hanno consentito ai terroristi di colpire New York e Washington. “Ho sentito dire per anni che (Bush, ndr) ha reso il paese più sicuro dopo l’11 settembre. Cosa significa ‘dopo’? Io ero là. Ho perso molti amici che vennero uccisi in quelle torri. Il peggior attacco di sempre, nella storia di questo paese, è avvenuto nel corso della sua presidenza. Beh, dopo quell’inconveniente … abbiamo giocato bene”. E con una metafora di baseball, incomprensibile per il pubblico italiano, paragona l’America di Bush a una squadra massacrata che, però, “dopo” la sconfitta è in grado di giocare anche bene. Gli argomenti di Trump non suonano come una “eresia” alle orecchie dei repubblicani, disaffezionati all’establishment del partito e alle sue scelte storiche. Ma sono storicamente fondate?
In parte sì, perché sono note le numerose falle dell’intelligence (soprattutto la non- collaborazione fra le varie agenzie di sicurezza, interne ed esterne) che hanno consentito a quattro gruppi di terroristi di agire indisturbati sul suolo americano. L’aspetto dell’11 settembre che però i giornalisti e gli storici di area conservatrice hanno sempre sottolineato, è il pregresso di anni di errori di sottovalutazione, la cui responsabilità ricade sul presidente democratico Bill Clinton. Bush, infatti, era alla Casa Bianca dal gennaio del 2001. Osama Bin Laden, invece, era nemico numero uno degli Stati Uniti almeno dal 1998, quando bombardò le ambasciate di Nairobi e Dar es Salaam. La prima caccia a Bin Laden venne lanciata su ordine di Clinton e venne caratterizzata da una serie di errori e occasioni perdute, in alcuni casi dei veri gol a porta vuota (sempre per usare metafore sportive). Per un candidato che aspira a diventare presidente repubblicano, è quantomeno inopportuno ricordare gli errori del proprio compagno di banco e non quelli commessi dall’avversario democratico.
Ma il peggio, Trump, lo riserva alle sue dichiarazioni sulla guerra in Iraq. Perché in quel caso attinge e piene mani dalla retorica dei liberal, della sinistra democratica. Da notare: nel 2003, quando iniziò l’operazione Iraqi Freedom, Trump era noto come imprenditore di area democratica. Evidentemente, su quel periodo, non ha mani cambiato idea. Un po’ più strano, però, il fatto che ora riproponga le stesse tesi di sinistra a un elettorato di destra. Il suo argomento principale è che Saddam non dovesse essere rovesciato, perché “combatteva i terroristi”. “Saddam Hussein era un cattivo. Ma una cosa positiva si poteva dire di lui: uccideva i terroristi. Ora l’Iraq è diventata la Harvard del terrorismo. Vuoi diventare un terrorista? Vai in Iraq e lo diventi. Saddam lo capiva e combatteva i terroristi”. Su questo tema, Trump aggiunge anche il classico della “menzogna” di Bush, affermando che la minaccia delle armi di distruzione di massa irachene fosse costruita a tavolino per giustificare l’intervento. Sicuramente, usando questi toni forti, Trump becca consensi a destra e a sinistra. Proprio così: anche a destra. Perché anche un insospettabile conservatore come Clint Eastwood, intervistato sulla sua ultima fatica “American Sniper”, ha detto cose molto simili sull’Iraq e Saddam.
Ma sono vere? Benché siano tesi trite, ritrite e ripetute talmente tante volte da apparire ormai come “fatti assodati”, non sono argomenti storicamente fondati. Non è vero che Saddam combattesse i terroristi. Proprio un quotidiano liberal insospettabile come il New York Times, il 23 dicembre scorso, ha pubblicato un lungo servizio di Kyle Orton sulla gestazione del movimento Isis sotto l’ala protettiva di Saddam. Con una serie di campagne di islamizzazione, dal 1991 al 2003, il dittatore del Baath ha allevato un’intera classe di jihadisti sunniti. Lo stesso Zarqawi, leader e ideologo dello Stato Islamico ben prima di Al Baghdadi, si era trasferito in Iraq negli ultimi anni di Saddam. E col passare del tempo, se non ci fosse stato l’intervento americano e britannico, sarebbe stato sempre peggio. Non è un caso che l’attuale classe dirigente del Califfato sia costituita da ex ufficiali dell’esercito di Saddam: sono passati naturalmente da un regime all’altro riconoscendone piena continuità. Anche per quanto riguarda le armi di distruzione di massa, Trump giudica troppo facilmente tutta la vicenda come una “menzogna”. Poiché le intelligence dei maggiori paesi occidentali, neutrali inclusi, erano convinte della loro esistenza. Tanto che è ancora in dubbio che realmente non vi fossero, o piuttosto non fossero state trasferite nella vicina Siria, nei lunghi mesi di negoziati che precedettero la guerra. Se Bush sbagliò, in ogni caso, lo fece in buona fede, sulla base di rapporti di intelligence apparentemente inoppugnabili. Solo la cultura conservatrice, dissentendo dal mainstream anti-intervento, finora ha tenuto in vita questa memoria. Spiace che sia proprio l’attuale candidato di testa dei repubblicani a negarla un’altra volta.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:24