Immigrati non per miseria ma per benessere

In Europa l’immigrazione dai Paesi africani è salita del 700 percento, con picchi vertiginosi nei riguardi dei Paesi scandinavi che, ora, cercano di frenare l’afflusso di immigrati non richiesti. Le Repubbliche Baltiche sono un mondo completamente diverso dal luogo d’origine degli immigrati ma, nonostante questo, convincono per opportunità di lavoro, sussidi e possibilità di costruirsi una famiglia. La Francia e la Germania, un tempo avamposti intermedi dell’immigrazione, hanno alzato barricate politiche e mediatiche, contradditoriamente al diktat dell’accoglienza per nazioni meno preparate, prima tra tutte l’Italia. E’ proprio qui che si consuma il genocidio di centinaia di morti sulle coste, a causa dei maltrattamenti subiti in nave e delle intemperie, senza contare lo strazio al momento dell’accoglienza forzata e per un’integrazione che, a questi ritmi, non potrà mai esserci.

I mass media ci inondano di informazioni, prima fra tutti la rassicurazione secondo cui le frotte di immigrati provenienti dall’Africa non si fermerebbero in Italia, ma sarebbero dirette altrove. Questo non ha senso per due ordini di ragione: il primo, non è un messaggio positivo nei confronti di quei Paesi in cui le masse sarebbero dirette, il secondo, Francia, Inghilterra e Paesi nordici stanno già ora organizzandosi per respingere e contenere i flussi migratori (a parte la Repubblica Federale Tedesca che, inondata dalle polemiche di Stati Uniti e Italia, in questo momento, ha elargito un’apertura provvisoria sui richiedenti asilo); è ovvio che questa barriera burocratica causerà la permanenza degli immigrati in Italia.

Viene spontaneo chiedersi cosa ne sia stato dei progetti umanitari e missionari, sia laicali che religiosi, in un continente da lungo tempo martoriato dalle guerre e dalla corruzione locale. Ma non possiamo ignorare le responsabilità della stessa Africa, rappresentata dall’Unione africana. Essa stabilì per il 2063 una serie di tappe fondamentali da raggiungere, promuovendo il cambiamento sociale, politico, strutturale che, in parte, c’è stato. Nel frattempo, non si è presa carico adeguatamente dello sfruttamento delle risorse naturali, coinvolgendo i propri cittadini e formando un proprio, autonomo mercato interno e d’esportazione. I legislatori, non hanno saputo garantire la distribuzione della ricchezza, un ambiente di lavoro favorevole e di sostegno reciproco nell’interazione tra governo e settore privato, processo che è stato in parte scoraggiato dalle industrie cinesi che hanno ridotto la capacità di guadagno per gli stati africani. Nonostante questo, vi sono stati dei piccoli boom che lasciavano presagire a decenni d’oro per il continente. Ma vediamo qual è stato il cammino, in breve, del ciclo economico favorevole nell’Africa sub-sahariana.

Vent’anni fa il Rwanda aveva appena subito un orrendo, grande genocidio; la Nigeria era sotto il pugno di ferro dei militari; l’Etiopia era reduce da due decenni di guerre intestine; nulla faceva intendere che l’Africa potesse inseguire un moderno modello di sviluppo, cavalcando l’onda degli anni ’80. Nonostante questo, le nazioni si ripresero e portarono avanti la bandiera anche per le vicine meno fortunate.

L’Uganda e il Rwanda divennero mete turistiche consigliate dal Lonely Planet (2012); la Nigeria divenne meta delle multinazionali occidentali che insediarono fabbriche e coltivazioni (Wall Street Journal, 6/6/2014); i governi cominciarono a migliorare l’impianto burocratico interno, sveltire la burocrazia e marginalizzare la piccola corruzione. In breve, petrolio, gas, oro, diamanti, platino, ferro, bauxite, cromo, divennero i motivi della ripresa del continente africano. Ma non solo. Le grandi piantagioni di frutta e verdura e le coltivazioni intensive di fiori in Kenya, gli allevamenti, avrebbero trasformato in pochi decenni l’Africa nel continente più potente del mondo.

La Nigeria è la prima economica dell’Africa. Con un Pil di 500 miliardi di dollari, è la 28esima economia mondiale e governa i suoi 180 milioni di abitanti, distribuiti in 36 Stati federali. E’ uno dei poli attrattivi più forti per l’Europa, Italia compresa, per i settori finanziari e bancari, assicurativi, (assieme alla Costa d’Avorio) e beni di consumo. In Etiopia nel 2010 si è assistiti a un vero e proprio miracolo economico. Nel 2013 il Pil ha avuto un incremento di quasi il 10 percento. Il governo è stato così lungimirante dal sostituire il termine “comunismo” con quello di “sviluppo”: il regime, al temine della Guerra fredda, non dimenticò le sue radici rivoluzionarie, ma ha provato, con successo, ad innestare, come nel modello cinese, nel marxismo il seme dell’economica di mercato. In poco tempo il settore manifatturiero è cresciuto notevolmente, aiutato dal costo del lavoro locale che vale circa 60 dollari al giorno. Tutto questo “benessere” ha alzato il tasso demografico dell’Etiopia dai 30 milioni degli anni Sessanta agli odierni 90 milioni.

Sempre nel 2010 il Kenya ha dato prova di maturità politica, promulgando una nuova Costituzione democratica che, tra l’altro, ha riorganizzato il Paese suddividendolo in 47 contee. Questo ha permesso quella stabilità politica necessaria per gli investimenti esteri.

Una domanda sorge spontanea: gli africani scappano da cosa? E’ un caso che la maggioranza degli immigrati che arrivano sui barconi via mare, non siano rifugiati politici, siano alfabetizzati (in alcuni casi laureati) e una volta arrivati in Italia mostrino di saper utilizzare tecnologie moderne come, ad esempio, il telefonino cellulare? Dove sarebbe tutta questa miseria? Il vero volto dell’Africa – non tutta, si intende – è quello di un Paese che, conoscendo ora un primissimo sviluppo lavorativo e industriale, si apre al mondo, mostrando ai suoi abitanti che esistono luoghi in cui possono rapidamente avere accesso a ciò che a loro è ancora, purtroppo, negato, come una sanità adeguata, alloggi moderni e diritti lavorativi.

Il consumismo e l’informazione di massa sono arrivati anche lì, così potenti che spingono gli africani a rischiare la vita, imbarcandosi, per una vita che garantisca quelle che, in Africa, almeno per il momento, sono soltanto promesse. Si dirà che tutto ciò non poggia sulla logica perché nessuno fra noi si imbarcherebbe mai a quelle condizioni. Invero, poggia sui fatti, storici, economici e culturali. Inoltre, non possiamo parlare come se fossimo africani, perché non lo siamo; non rispondiamo a quei dettami culturali e caratteriali che sono i solo, e che non sono i nostri.

Non sarebbe il caso di formulare un nuovo meccanismo diplomatico con i Paesi dell’Unione africana? Non sarebbe anche il caso di ripensare il nostro modello industriale d’esportazione, ancora troppo legato alla logica colonialista e del bottino, piuttosto che a quella del libero mercato? Senza queste due manovre espansive, non si risolverà affatto il problema poiché, loro, i nostri “concittadini”, mi viene da chiamarli così, africani, continueranno ad arrivare in Occidente cercando un futuro che ora potrebbero costruire nel loro Paese. Gli africani stanno perdendo un’importante occasione, quella di resistere in Africa per essere, finalmente, un giorno, padroni a casa propria.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:23