Auschwitz, 27 gennaio, 300 sopravvissuti al campo di sterminio più tristemente celebre dell’impero nazista, si sono ritrovati a celebrare tutti i loro compagni di prigionia che non ce l’hanno fatta. Questo 27 gennaio è stato speciale, perché segna un anniversario a cifra tonda, il 70mo e perché è forse l’ultimo Giorno della Memoria che, per questioni anagrafiche, sarà celebrato dai sopravvissuti. La pattuglia di reduci dei campi, sempre più ristretta, è l’ultima testimone diretta del crimine nazista. Dopo la loro morte, si teme che la memoria venga sepolta per sempre e con essa l’ordine civile e politico europeo che è stato istituito dopo il 1945 affinché non si ripetesse mai più la Shoah.
Già da anni ci sono tutti i sintomi della fine di questo ordine democratico e liberale, che garantisce la difesa di una patria per gli ebrei in Israele e l’esistenza pacifica della comunità ebraica nelle città europee. I segni di impazienza maggiori riguardano il primo aspetto dell’ordine post-Shoah: l’esistenza di Israele. E’ un errore storico grossolano legare la sua legittimità allo sterminio nazista, prima di tutto perché insediamenti e comunità ebraiche in Palestina sono sempre esistite, il progetto sionista risale a mezzo secolo prima dell’inizio della Shoah e un primo riconoscimento di una “casa nazionale” (premessa di un riconoscimento all’indipendenza) risale alla Prima Guerra Mondiale, alla Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917. Se Israele non trovò posto fra le nuove nazioni indipendenti, lo si dovette soprattutto alla resistenza politica opposta dalla Gran Bretagna, che non aveva alcuna intenzione di perdere il suo impero nel Medio Oriente. Ma sarebbe un’assurdità storica pensare che l’Olocausto sia l’unica ragione dell’esistenza di Israele quale nazione indipendente dal 1948. Tuttavia, è inutile negarlo, è questa la vulgata storica che si è diffusa dopo la guerra, soprattutto in Europa, soprattutto per motivi psicologici, per ripulire la coscienza di ex nazisti ed ex collaborazionisti, o passivi complici della Shoah: “abbiamo perseguitato (o lasciato perseguitare) gli ebrei, adesso, come compenso, abbiamo garantito la nascita della loro patria”. Questa teoria del compenso, nell’ultimo mezzo secolo, si è rivelata una maledizione, oltre che una garanzia di sopravvivenza, per gli ebrei di Israele. Perché è solo la memoria della Shoah che sta impedendo alle diplomazie europee di passare dalla parte degli Stati arabi che vogliono la distruzione dello Stato ebraico. La paura di una nuova Shoah nel Medio Oriente, fa sì che ogni formula diplomatica elaborata per il Medio Oriente sia preceduta dalla clausola della sicurezza dei confini israeliani. Anche se è spesso seguita da condizioni e riserve che la diluiscono fino a farle perdere ogni significato pratico: confini sicuri sì, ma arretrati fino a posizioni indifendibili; confini sicuri sì, ma i palestinesi profughi e le decine di milioni di loro discendenti devono poterci ritornare dentro; confini sicuri sì, ma guai se gli ebrei si azzardano a costruire case in quei territori dove le frontiere non sono ancora state tracciate con certezza (come se le case degli ebrei fossero una minaccia in sé); confini sicuri sì, ma senza Gerusalemme. Che tra parentesi, è la capitale di Israele. La teoria compensatoria è la stessa che lega le mani agli israeliani, nell’esercizio della loro auto-difesa: “se vi abbiamo dato una patria, adesso vi dovete comportare bene”, dicono gli europei benpensanti. E così, ogni missile lanciato su cellule terroristiche, ogni azione militare, ogni bombardamento su Gaza, viene immediatamente paragonato alla persecuzione nazista, questa volta con gli ebrei visti nel ruolo dei nuovi nazisti. Se la memoria dovesse svanire, un giorno non lontano, tutte queste riserve prenderebbero il sopravvento sulla premessa dei confini sicuri. E Israele dovrebbe tornare a difendersi da sola, con le armi, lottando per la propria sopravvivenza.
Non solo nel Medio Oriente, ma anche in Europa sta crollando il secondo pilastro dell’ordine post-bellico: quella della pacifica coesistenza della minoranza ebraica con maggioranze non ebraiche. Non è il caso di ricordare quanto sia diffuso l’antisemitismo in Europa, basta citare un solo dato riguardante la Grecia, dove si è appena votato un governo che unisce l’estrema sinistra all’estrema destra: dal rilevamento della Anti Defamation League risulta che il 69% dei greci nutra sentimenti antisemiti. In Italia il fenomeno è più ridotto, ma riguarda un cittadino su cinque. In Francia, un cittadino su tre. E c’è poi il problema del conflitto mediorientale da esportazione, quello condotto sul suolo europeo dalle frange islamiche più estremiste. Se in Francia gli ebrei abbandonano in massa il Paese per tornare in Israele, a costo di correre rischi di attentati e guerra, è perché gli atti di antisemitismo sono raddoppiati nell’ultimo anno. In tutti gli ultimi massacri di terroristi islamici in Francia e dintorni, gli ebrei erano un bersaglio: a Tolosa nel 2012, a Bruxelles nel 2014, a Parigi nelle stragi di gennaio. Gli ebrei che si trasferiscono in Israele sanno cosa li attende, ma per lo meno hanno la certezza di potersi difendere da soli, o di farsi difendere da altri ebrei. E’ l’autodifesa che li spinge verso il Medio Oriente, perché in Europa non la possono esercitare e ritengono che la tutela della loro sicurezza stia venendo meno, anno dopo anno.
Questo in Europa occidentale. Dall’altra parte della ex cortina di ferro va pure peggio. In Europa orientale, lo scontro sulla Memoria che è intercorso fra il governo polacco e Vladimir Putin dimostra come la questione ebraica stia anche diventando strumentale per il conflitto in Ucraina. Il governo polacco, infatti, non ha invitato personalmente il presidente russo. Il ministro della Difesa polacco ha spiegato pubblicamente che non ritiene sia il caso che Putin celebri la liberazione di Auschwitz dopo quello che sta facendo agli ucraini. Da un punto di vista polacco, storicamente parlando, gli invasori sono stati due: nazisti e sovietici. Se la Russia si considera discendente legittima dell’Urss, la presenza del suo presidente (specie in un momento di tensione militare) non è ben gradita. Intanto, però, sia in Polonia, che in Ucraina che in Russia, l’antisemitismo continua a crescere a livelli preoccupanti. Perché nessuna delle tre nazioni ha fatto i conti con la storia della Shoah. I polacchi e gli ucraini perché hanno registrato un alto tasso di collaborazionismo con i nazisti, durante la guerra. I russi perché hanno usato la questione ebraica in modo strumentale nella guerra contro i nazisti, ma poi li hanno perseguitati a loro volta, nelle purghe staliniane e poi nella lunga repressione dei “refusenik”. E infine, crollata l’Urss, la vecchia anima contadina antisemita, quella dei pogrom, delle teorie cospirative dei “Savi di Sion”, si è rivelata tutt’altro che morta: era solo congelata dal regime comunista, ma si è rivitalizzata in tutta la sua virulenza come ai tempi degli zar.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:59