Il processo all’Islam e al multiculturalismo

Dopo fiumi, inondazioni di inchiostro e di retorica a buon a mercato, resterà stavolta una vera consapevolezza della minaccia islamica? Ricordate la brutale uccisione del regista Theo Van Gogh? Era il 2004, 10 (dieci!) anni fa. E l’ondata di violenza scatenata, nel 2005, dalle vignette su Maometto pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten? E quanti attentati e sgozzamenti da allora? Il rischio è che riempirsi la bocca, e riempire piazze — reali e virtuali — di “je suis”, “siamo tutti” e slogan simili, serva solo a sollevare la propria coscienza, e agli ipocriti per mascherarsi, ma vera consapevolezza zero. E la strage di Boko Haram in Nigeria? “Siamo tutti nigeriani”, naturalmente… Arriveremo al punto in cui non ci basterà uno slogan al giorno.

Ma passate poche ore dal massacro di Charlie Hebdo, e mentre a Parigi l’incubo continua, già è partita la corsa ai distinguo, sono partiti gli appelli alla tolleranza e al dialogo con l’islam “moderato” (quasi un ossimoro, o una figura mitologica), i richiami alla “liberté” che vince sull’odio e alle risate che “seppelliranno” i terroristi (sigh). E’ già ripartita la giostra del politicamente corretto e del buonismo, e si vedono persino forme di autocensura. Né mancano complottismi vari (ma qui entriamo nel campo della psichiatria). Libertà, democrazia, diritto rischiano di diventare parole vuote se ad esse non corrispondono fatti, politiche, misure concrete per difenderle, per contrastare un’ideologia ben precisa e le sue braccia armate.

Quello di Charlie Hebdo era purtroppo un massacro annunciato (e le autorità francesi dovrebbero rispondere della ridicola protezione offerta al giornale). I suoi disegnatori sono stati per anni accusati di islamofobia e razzismo, isolati dalla comunità intellettuale europea e dall’opinione pubblica benpensante, i cui maggiori esponenti in queste ore sono probabilmente nelle piazze o sui giornali con i loro eruditi editoriali. Mentre tanti, in trincea come Charlie Hebdo nella guerra culturale all’integralismo islamico, sono soli e snobbati, liquidati come provocatori rozzi e irresponsabili quando non disprezzati.

Non si tratta di pochi o molti fanatici che con il vero islam non hanno nulla a che fare, che travisano il messaggio di pace e d’amore del profeta. Sforzarsi di distinguere tra il “vero” islam e i “fratelli che sbagliano” è un errore che può costarci carissimo: non perché tutti i musulmani sono terroristi o violenti. Ovviamente non è così ed è persino una banalità ricordarlo. E’ un errore perché ci impedisce di riconoscere il nemico, di svelarne la vera identità e le motivazioni. Quella jihadista è un’ideologia che ha come fondamento una certa versione di islam, purtroppo prevalente. E per sconfiggerla non basta la repressione, come per qualsiasi fenomeno criminale, né bastano operazioni di sicurezza e di intelligence. Occorre contrastare culturalmente e politicamente l’ideologia islamista, che mentre tutti (o quasi) condannano l’atto di pura violenza continua a prosperare nelle nostre società all’ombra del multiculturalismo.

I commando di estremisti che uccidono in nome di Allah giornalisti e vignettisti colpevoli solo di aver scritto o disegnato qualcosa di sgradito non sono che il braccio armato, ma il compendio di precetti religiosi, morali, sociali e l’ideologia politica dell’islam cosiddetto “moderato” sono gli stessi. I primi ricorrono alla violenza, i secondi no, per opportunismo o quieto vivere, ma entrambi rifiutano e disprezzano i princìpi su cui le nostre società sono fondate. Non si può pensare di rendere inoffensivi i primi senza estirpare l’ideologia islamista. Un’ideologia politica totalitaria radicata nella dottrina fondante dell’islam (come le ideologie del ‘900 erano fondate sull’idea di nazione, di razza e di classe), a cui si aderisce non per miseria e disagio sociale, né per una mancata integrazione, ma per persuasione e indottrinamento, come si aderiva nel secolo scorso al nazismo, al fascismo e al comunismo.

Il problema quindi è proprio l’islam: nella versione purtroppo prevalente, che si è andata affermando nel corso del XX secolo, è incompatibile con la nostra civiltà fondata — pur con tutti gli errori e le imperfezioni di questo mondo — su libertà, democrazia, diritti umani. Che infatti, nei Paesi islamici — con rarissime e parziali eccezioni dovute a regnanti illuminati — sono semplicemente negati. E se non lo sono formalmente da parte del potere civile, lo sono dalle autorità religiose. Inutile girarci intorno: islam oggi vuol dire sottomissione e violenza in ogni ambito. In ambito civile, già all’interno della famiglia, sottomissione delle donne. In ambito politico, persecuzione degli oppositori e sottomissione degli infedeli. In ambito religioso e sociale, libero arbitrio, libertà di coscienza e d’espressione non sono nemmeno contemplati. Forse un giorno arriverà per l’islam il tempo di una grande Riforma: religiosa, culturale e civile. Ma quel tempo sembra, purtroppo, assai lontano.

Di fronte a questa versione di islam che si fa ideologia politica, gli strumenti del multiculturalismo non solo sono spuntati. Sono pericolosi. In nome di una “diversità culturale” che per noi è ricchezza, per un malinteso spirito di tolleranza e apertura, abbiamo permesso che nelle nostre città, nei nostri quartieri (sempre in quelli accanto, a dire il vero), prendesse piede una “legalità” parallela, fatta di sottomissione, violenza, brutalità. Anziché integrare individui abbiamo cercato di integrare comunità, tramite politiche pubbliche incentrate sul riconoscimento identitario. Invece di assicurare l’esercizio di libertà e diritti ai singoli, abbiamo concesso a queste comunità vere e proprie “enclave” etnico-confessionali, addirittura consegnando loro le chiavi di intere periferie. E abbiamo chiuso un occhio, anzi due, su comportamenti contrari alla nostra legalità basata sul rispetto della persona e dei diritti individuali, a cominciare dalla condizione delle donne. Nel caso delle comunità islamiche infatti non si tratta di diverse festività, cibi maleodoranti, abiti insoliti o costumi bizzarri, ma di due visioni inconciliabili dei valori alla base della convivenza. Le comunità, e non gli individui, sono così divenute i naturali soggetti di diritto, portatrici di istanze meritevoli di attenzione e destinatarie dei riguardi di sindaci e governi buonisti. Comunità comandate da chi?

Sulla base di quali regole? E finanziate da chi? Questo non è multiculturalismo, ma multitribalismo. Il risultato è una società frammentata dove i diversi gruppi affermano la propria identità attraverso il vittimismo, il risentimento, che spesso sfociano nell’ideologia politica. Di fronte ai primi problemi abbiamo cominciato ad inventarci un islam “moderato” con cui collaborare, affannandoci ad accreditare imam e interlocutori di dubbia provenienza per instaurare un dialogo di facciata, a beneficio delle telecamere, dove ci si confronta su tutto tranne su ciò che conta e che, purtroppo, ci divide: il rispetto delle libertà fondamentali della persona. Nell’illusione di allontanare così lo spettro dello “scontro di civiltà”. La sveglia dal sogno multiculturale è finalmente suonata?

Per favorire la nascita di un islam “riformato”, con il quale sia possibile convivere pacificamente e serenamente, nei nostri Paesi così come in Medio Oriente, dobbiamo fare l’esatto contrario: pretendere l’adesione incondizionata, non strumentale, ai basilari princìpi di diritto su cui si fonda la convivenza in Occidente e combattere, militarmente e culturalmente, l’ideologia islamista.

Tratto da Tocqueville

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:06