“La lobby ebraica ha perso molto dei suo potere mitico. La retorica e le azioni del nostro premier hanno in gran parte causato questo. Il modo in cui [Erdogan] ha abbandonato il forum di Davos [nel 2009] ha notevolmente offuscato il carisma regionale di Israele. Ciononostante, lo Stato ebraico è riuscito a danneggiare la Turchia.” Queste parole sono state pronunciate dall’ex-alto diplomatico e parlamentare Volkan Bozkir, membro del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), in un’intervista rilasciata al quotidiano Hurriyet il 18 marzo 2013. Nel mini-rimpasto governativo del premier Ahmet Davutoglu, avvenuto il mese scorso, Bozkir è diventato ministro turco per l’Unione Europea e capo-negoziatore nel processo di adesione della Turchia all’UE.
Dal momento che la Turchia, quattro anni fa, ha allentato le relazioni diplomatiche con Israele, quest’ultimo tenta, invano, di normalizzarle. Tra i vari tentativi, la telefonata che il premier israeliano Benjamin Netanyahu fece all’allora primo ministro (e ora presidente) Recep Tayyip Erdogan per scusarsi dell’episodio del 2010 della nave Mavi Marmara. Dall’attacco israeliano alla flottiglia turca che mirava a rompere “l’assedio illegale” di Gaza, Ankara ha ripetutamente detto che non ci sarà una normalizzazione dei rapporti se Israele a) non si scuserà per la vicenda della Mavi Marmara; b) non avrà risarcito le famiglie dei nove turchi uccisi a bordo della nave; e se c) lo Stato ebraico non avrà rimosso del tutto il blocco navale imposto a Gaza. In entrambi i paesi, non sono mai assenti nelle pagine dei quotidiani notizie di una potenziale svolta.
Più di recente, Verda Ozer, una giornalista di Hurriyet ha riportato le parole di un “alto funzionario di Ankara” che le ha detto: “Siamo disposti a normalizzare i rapporti con Israele”. Ecco quanto scritto dalla Ozer in un articolo del 25 ottobre:
Gli ho chiesto: “La Turchia sta prendendo in considerazione l’ipotesi di normalizzare le relazioni con Israele e l’Egitto, che sono gli unici paesi in grado di offrire stabilità nella regione diversamente dall’Iran? Il funzionario ha risposto: “Rimane in sospeso solo la questione del risarcimento. Una volta risolta, invieremo di nuovo lì il nostro ambasciatore e le relazioni saranno normalizzate”. Ma la normalizzazione è possibile? Teoricamente lo è. In realtà, è quasi impossibile.
Dopo le scuse presentate da Netanyahu, la Turchia è arrivata a toccare livelli di antisemitismo come mai prima. Un anno e mezzo dopo l’iniziativa del premier israeliano di presentare le proprie scuse per l’episodio della Mavi Marmara, Erdogan ordinò all’ambasciatore turco a Washington, Serdar Kilic, di scrivere a suo nome all’American Jewish Congress per dirsi disposto a restituire il premio “Profile of Courage” assegnatogli nel 2004 dall’organizzazione con sede a New York. Poco prima, l’organizzazione aveva detto che Erdogan era diventato “il leader anti-Israele più virulento” e lo aveva invitato a restituire il premio. Durante l’operazione “Protective Edge” del luglio scorso, Erdogan disse che “Israele ha sorpassato Hitler in barbarie”.
Motivazioni emotive e pragmatiche spingono Erdogan (e del resto Davutoglu) a sfidare Israele pubblicamente e a mantenere “una guerra fredda” con Israele. Emotive perché una guerra santa contro lo Stato ebraico è un prerequisito per il suo islamismo pro-Hamas. E pragmatiche perché la guerra fredda e la sua retorica esplosiva nei confronti di Israele si sono rivelate una fonte inesauribile di voti in un paese che difende l’antisemitismo. Le cruciali elezioni politiche programmate per giugno 2015, molto probabilmente saranno un altro luogo d’azione per nuove aggressioni verbali contro Israele.
In un discorso della settimana scorsa, Erdogan ha difeso la libertà di stampa esistente in Turchia asserendo che 16 giornalisti sono stati uccisi la scorsa estate durante l’offensiva militare di Israele contro Gaza, nella cosiddetta operazione “Protective Edge”.
“Purtroppo, qualche politico in Turchia ed alcuni organi d’informazione internazionali criticano aspramente la Turchia, dicendo che nel paese non c’è libertà di stampa”, egli ha asserito. “Ma i 16 giornalisti che sono stati uccisi da Israele durante gli attacchi a Gaza non sono mai stati menzionati”. Questo è quanto ha dichiarato Erdogan riguardo alla libertà di stampa in Turchia e in Israele. Come sempre, la realtà è diversa dall’immaginazione.
Secondo la Commissione per la protezione dei giornalisti (Cpj), i 16 giornalisti menzionati da Erdogan non sono stati uccisi durante l’operazione “Protective Edge”, ma dal 1992. Anzi, nel database della Cpj il numero dei giornalisti uccisi in Turchia dal 1992 ammonta a 20. Nell’indice mondiale della libertà di stampa stilato dallo Freedom House, la Turchia appartiene al gruppo dei paesi “non liberi” classificandosi al 143mo posto a livello globale e condividendo lo stesso punteggio con il Sud Sudan, la Libia, l’Ecuador e l’Armenia. Israele appartiene al gruppo dei paesi “liberi” occupando il 62mo posto e classificandosi meglio di alcuni Stati membri dell’UE come l’Italia (al 64mo posto), Ungheria (71mo), Bulgaria (78mo) e Grecia (92mo).
Nella classifica dell’indice sulla libertà di stampa a livello mondiale pubblicato ogni anno da Reporters Without Borders, la Turchia occupa un imbarazzante 154mo posto, un risultato peggiore rispetto al Burundi, al Myanmar, all’Etiopia, al Bangladesh, alla Cambogia, all’Afghanistan, alla Libia, all’Uganda e al Kyrgyzstan, tra gli altri. Nella stessa classifica, Israele si piazza al 96mo posto.
Ancora una volta, Erdogan ha alterato i fatti e le cifre per colpire Israele – mentre i suoi diplomatici parlano della “disponibilità della Turchia a normalizzare le sue relazioni con Israele”. In realtà, con o senza la distensione dei rapporti diplomatici fra Ankara e Gerusalemme, i turchi non hanno mai nascosto i loro obiettivi più ampi nel conflitto arabo-israeliano: ossia che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale di uno Stato palestinese; e che Israele dovrebbe ritirarsi entro i confini precedenti al 1967. Fino ad allora, sarà halal (permesso nell’Islam) a Erdogan di dare la colpa allo Stato ebraico del riscaldamento globale, del virus dell’ebola, della fame in Africa e di ogni altra disgrazia che affligge il mondo.
Traduzione a cura di Angelita La Spada
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:49