Quando anni fa mi recai in Israele, avevo in mente lo specifico obiettivo di fare il mio pellegrinaggio a Gerusalemme. Ripensando a quell’estate del 2010, Israele stava beneficiando di un interludio di pace incerta. Più di un anno prima, tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009, le Forze di difesa israeliane (IDF) erano state inviate a Gaza per disarmare Hamas che lanciava razzi su Israele; poi, due anni dopo, nel novembre 2012, le IDF fecero ritorno a Gaza per ragioni analoghe.
Mentre me ne sto a guardare insieme alla gente di tutto il mondo come le Forze di difesa israeliane siano state costrette ancora una volta con riluttanza ad entrare in azione per fermare il lancio di centinaia di razzi di Hamas capaci di raggiugere in profondità Israele, cercherò di andare oltre la semplice e facile condanna della brutalità della guerra e la consueta compassione che si prova per le sue vittime.
Stiamo vedendo – come forse Albert Camus avrebbe scritto – Israele impegnato in una lotta sisifica contro Hamas, i palestinesi, gli arabi, i musulmani e contro una sempre più diffusa corrente d’opinione in Occidente che evita sempre meno di mostrare il laido antisemitismo che si cela dietro il suo sostegno a coloro che invocano apertamente un altro Olocausto per gli ebrei.
Chi muove delle critiche all’azione militare di Israele contro Hamas ha cancellato dalla propria memoria ciò che il governo israeliano, allora guidato da Ariel Sharon, fece dando il via libera al ritiro unilaterale da Gaza e consegnandola ai rappresentanti del popolo palestinese. Le IDF furono autorizzate da Sharon e dal suo governo a rimuovere con la forza quei coloni ebrei residenti nella Striscia di Gaza che avevano insistito a rimanere lì.
Lo sgombero forzato era necessario perché non c’era alcuna indicazione fornita dai palestinesi in merito al fatto che fossero pronti a vivere fianco a fianco con gli ebrei in pace. Qualsiasi cenno – anche simbolico – che almeno qualche ebreo sarebbe stato gradito, o addirittura che gli sarebbe stato consentito di vivere lì in pace e sicurezza, avrebbe inviato un segnale che i palestinesi accettavano l’idea di una coesistenza pacifica con gli ebrei. Un gesto simile avrebbe indicato un cambiamento della mentalità palestinese, in linea con la promessa che gli accordi di Oslo rappresentavano quando furono firmati nel 1993 da Yitzhak Rabin, allora premier di Israele, e da Yasser Arafat, all’epoca presidente dell’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Gli accordi di Oslo furono naturalmente un bivio – quello che avrebbe portato alla riconciliazione con gli ebrei – bivio che però non è stato preso dai palestinesi.
Il ritiro israeliano da Gaza è stato un test a cui sono stati sottoposti i palestinesi da Ariel Sharon. È arrivato circa quattro anni dopo che i terroristi arabi legati ad al Qaeda dirottarono gli aerei di linea americani e li fecero schiantare contro le Torri Gemelle del World Trade Center, a New York, e contro il Pentagono, a Washington, cercando altresì, a quanto si suppone, di far precipitare sul Campidoglio un quarto aereo che per un tentativo di rivolta dei passeggeri cadde in un campo di Lancaster, in Pennsylvania. Mentre gran parte del mondo gridava all’orrore, nel vedere quella mattina dell’11 settembre le immagini di morte e devastazione per mano dei dirottatori, c’era chi nel mondo musulmano festeggiava. Tra loro c’erano i palestinesi, che distribuivano dolci come se avessero ottenuto una grande vittoria. Gli israeliani erano tuttavia disposti a procedere lungo una via che faceva sperare in un eventuale accordo fra gli ebrei e gli arabi [palestinesi] sul principio dell’esistenza di due Stati in Palestina – l’intento originario del piano di spartizione del territorio delle Nazioni Unite, che gli arabi avevano rifiutato di accettare, nel novembre 1947.
Ma prima che un simile piano fosse perfezionato, era necessaria una fase di fiducia – come reputava l’allora premier israeliano Ariel Sharon – in cui i palestinesi avrebbero dovuto dimostrare, con le parole e i fatti, il loro desiderio di costruire una fiorente “Singapore nel Mediterraneo” e che avrebbero accettato gli ebrei e Israele dopo oltre mezzo secolo di negazionismo e guerre.
Gaza è stata consegnata ai palestinesi come un test per costruire la fiducia fra i due popoli e per chiudere col passato che aveva macchiato una storia che avrebbe potuto essere diversa.
Nulla è predestinato, o scolpito nella pietra, da non poter essere modificato, perché alla fine tutto ciò che ha importanza nella storia umana è mediato e negoziato dagli uomini. È bene ricordare ciò che William James, un filosofo americano ha scritto: “Tutto ciò che conosciamo e siamo è grazie agli uomini. Non abbiamo alcuna verità rivelata se non attraverso gli uomini”.
Gli ebrei, molti dei quali non avevano mai lasciato la loro terra ancestrale, avevano cercato di favorire il ritorno in Palestina di molti altri ebrei dopo duemila anni di esilio; che tale ritorno, si è potuto realizzare dopo la Prima guerra mondiale, che aveva portato Gran Bretagna e Francia come alleate a impossessarsi e spartirsi le terre che avevano fatto parte dell’Impero ottomano fino alla sua sconfitta del 1918, forse fu un colpo di fortuna della storia. Gli ebrei avanzavano delle rivendicazioni ancestrali che chiunque abbia familiarità con la Bibbia non potrebbe negare. Allo stesso modo, chiunque abbia familiarità con il Corano non potrebbe negare la storia degli ebrei in Palestina. La terra tra il Mediterraneo e i due fiumi della Mesopotamia – tra cui la Penisola arabica – che fu governata da un califfato retto da sultani ottomani fino al 1918, era grande abbastanza per accogliere le richieste nazionaliste e il destino di arabi ed ebrei.
Tuttavia, la sconfitta dell’Impero ottomano, e il concomitante riallineamento politico nella regione, fu necessaria per realizzare l’obiettivo sionista o la speranza ebraica di avere uno Stato – una speranza che non era singolare né biasimevole.
Anche prima di allora, gli ebrei avevano cercato di riconciliarsi con gli arabi. Chaim Weizmann, il leader sionista, si recò nel punto più settentrionale del Mar Rosso, ad Aqaba, che era stato sottratto ai turchi dai guerrieri arabi fedeli al principe Faisal, e guidati da T. E. Lawrence, in una campagna che faceva parte della “rivolta araba” contro il dominio ottomano.
Weizmann incontrò il principe Faisal, figlio dello sceriffo della Mecca Hussein e leader putativo degli arabi, che carezzava il sogno di far rinascere un regno arabo. Weizmann e il principe Faisal si sarebbero incontrati nuovamente a Londra nel dicembre 1918, in vista della Conferenza di pace di Parigi del 1919. Questi incontri furono un tentativo di conciliare le aspirazioni di entrambe le parti affinché gli impegni che la Gran Bretagna aveva chiesto di onorare tanto agli arabi quanto agli ebrei nei documenti – il carteggio McMahon-Hussein del 1915-1916 e la Dichiarazione Balfour del novembre 1917 – potessero essere stabiliti amichevolmente.
Non fu così. Gli arabi allora non erano disposti, come non lo sono ancor oggi, ad accettare gli ebrei – “l’altro” – come essere uguali. Anche gli ebrei pensavano di godere dei propri legittimi diritti di creare uno Stato, diritti che non potevano essere negati su un piano religioso, politico e nemmeno morale.
È questa negazione “dell’altro”, ossia il rifiuto di accettare che anche “l’altro” possa godere di diritti legittimi, che ha fatto la storia degli arabi e dei musulmani nel modo di trattare o di comportarsi con gli “altri” – indipendentemente dal fatto che gli “altri” siano diversi etnicamente o che professino una religione differente – un’orribile farsa dei nostri tempi. Questa storia, con le sue antiche radici tribali, si sta svolgendo sotto i nostri occhi, con i combattenti islamisti o “jihadisti” che si scatenano nelle terre della Mezzaluna fertile e con le guerre tribali che utilizzano armi moderne e che travolgono arabi e musulmani. Rivivono antiche animosità del settarismo sunnita-sciita e le minoranze, come i cristiani in Iraq e in Siria con la loro storia che risale al tempo degli Apostoli, sembrano condannate di fronte al vortice di fanatismo islamista che investe la regione.
Questa negazione “dell’altro” fa sembrare speciosa e autoreferenziale ogni pretesa di probità morale da parte degli arabi e dei musulmani. Quando il premier turco Recep Tayyip Erdogan, riferendosi al lancio indiscriminato di razzi da Gaza per mano di Hamas, dichiara pubblicamente che le azioni del governo israeliano superano Hitler in barbarie, siamo di fronte a una dimostrazione di come siano diventati dissennati i leader musulmani – o lo sono da lunghissimo tempo – quando si tratta di capire la storia “dell’altro”.
Nel caso del leader turco, alla natura scriteriata delle sue osservazioni dirette contro Israele si aggiunga la consapevolezza di come i turchi all’inizio del secolo scorso abbiano sterminato la minoranza armena in seno all’Impero ottomano, sterminio ora conosciuto come “genocidio armeno”, e che la Repubblica turca rifiuta di ammettere nonostante le prove inconfutabili e il trascorrere del tempo.
Non si può dire lo stesso degli ebrei. Gli ebrei – come popolo con una storia che potrebbe essere descritta come “la madre della storia delle popolazioni semitiche” – hanno sempre accettato “l’altro” come pure hanno cercato di ottenere “dall’altro” il riconoscimento dei propri diritti.
Gli arabi e i musulmani non devono far altro che leggere con cuore sincero il Corano, da essi considerato la parola di Allah, per capire da soli come la storia degli ebrei sia lì apertamente davanti nel loro testo sacro. Tuttavia, leggere con cuore sincero richiede come prerequisito una purificazione del cuore. Il Corano asserisce che “Non sono gli occhi ad essere ciechi, ma sono ciechi i cuori nei petti” [22:46]. In altre parole, senza un cuore illuminato dalla sincerità, qualsiasi lotta per la pace e la giustizia – come gli arabi e i musulmani affermano che sia la lotta contro gli ebrei – non è solamente un futile esercizio ma anche un farsi beffa di ciò che si cerca negando lo stesso rispetto “dell’altro”. Nel suo recente articolo pubblicato dal National Post dal titolo “L’inverosimile Golia ebreo”, George Jonas ha argomentato che “gli ebrei erano la Gente del Libro e gli arabi i Guerrieri del Deserto”. Le circostanze dei tempi moderni hanno trasformato gli ebrei in guerrieri che difendono i propri diritti, anche se il loro diritto a difendersi è dileggiato da arabi e musulmani, mentre radono al suolo le città e i villaggi degli “altri” che essi accusano di essere infedeli o peggio.
Nella più ampia prospettiva della cultura e della storia, la riflessione di George Jonas riassume il problema e il dilemma degli ebrei accerchiati da palestinesi, arabi e musulmani da ogni parte. Il Corano stesso afferma ripetutamente che gli ebrei sono l’originaria “gente del Libro” (ahl al kitab) tra i popoli definiti semitici per razza o lingua. Che cosa potrebbe significare questo dal nostro punto di vista guardando indietro dal piedistallo del XXI secolo? Oserei dire che essere “gente del Libro” significa essere un popolo che si batte per la libertà e la giustizia per mezzo dell’intelletto, la riflessione, l’introspezione e mettendo tutto in discussione – anzi mettendo sempre in discussione – senza mai accettare l’autorità solo perché l’autorità è imposta arbitrariamente. Questo mettere in discussione includerebbe anche il rapporto con Dio, come Giacobbe che lottò (simbolicamente) con Dio, senza abbandonare la dignità umana.
Il contrario della “gente del Libro” allora significherebbe rimanere legati senza remore a una tribù, essere guidati dall’istinto piuttosto che dall’intelletto, enfiare il codice guerriero e vietare il ragionamento perché “sedizioso” per la cultura della tribù.
In tutto il mondo arabo-musulmano c’è la mortificante assenza di ciò che significa essere “gente del Libro”, di una cultura che progredisce attraverso la critica e l’esame di coscienza. Il Corano ha finito per essere venerato dai musulmani invece di essere letto, esaminato, meditato, contestualizzato e discusso apertamente con la consapevolezza che la parola di Allah è infinita nel significato.
Il Corano afferma: “Anche se tutti gli alberi della terra diventassero calami, e il mare e altri sette mari ancora [fossero inchiostro], non potrebbero esaurire le parole di Allah”. [31:27] Questo versetto intende dire – quasi come un monito per i musulmani – che nessun musulmano dovrebbe pretendere in modo assurdo di avere il monopolio della sua lettura, perché ciò equivarrebbe a ridurre la maestà di Dio alla piccolezza dell’uomo. Il Corano è stato tuttavia trasformato da un significativo numero di musulmani in un’arma con cui uccidere, mutilare, distruggere, ridurre in schiavitù gli altri e, questa è la cosa più paradossale, ostacolare efficacemente lo sviluppo di una cultura del libro o, in altre parole, una cultura dei lumi. In assenza di questa cultura illuminista, ciò che il mondo ravvisa fra gli arabi e i musulmani è una cultura dell’invidia, della negazione, del risentimento, del bigottismo che continua a gorgogliare in una guerra intermittente per comporre, anche solo temporaneamente, le dispute che si riaccendono facilmente in un circolo infinito di mutilazioni e uccisioni, incolpando gli “altri” della farsa continua.
In tali circostanze, non c’è proprio nulla che gli ebrei, come “gente del Libro”, possano fare per calmare gli arabi e i musulmani, fare la pace con i palestinesi, se non difendersi efficacemente dall’assurdità e dalla malevolenza di un popolo che ha trasformato la parola di Allah in un culto della morte.
Quanto ai musulmani, o a molti di loro, essi hanno sigillato i loro cuori, si sono otturati le orecchie, hanno reso ciechi i loro occhi in modo da poter procedere noncuranti lungo la strada che hanno scelto; e quei musulmani che mettono in dubbio l’imbecillità pura di un comportamento del genere vengono inoltre minacciati in quanto considerati apostati ed eretici.
E poi ci sono quelli in Occidente che incoraggiano i palestinesi nel loro percorso distruttivo, con false argomentazioni di moralità, vittimismo, diritti umani e noncuranza dei diritti storici degli ebrei – e insistendo sul fatto che gli ebrei non dovrebbero fare ciò che essi stessi avrebbero fatto in una situazione simile, di fronte agli abusi e alla violenza senza fine.
Eppure dietro il presunto “ciclo di violenza” che oscura la terra dove i profeti hanno camminato e predicato la parola di Dio, la promessa di pace attraverso la riconciliazione è onnipresente. Ciò fu evidente quando il presidente egiziano Anwar Sadat, nel novembre 1977 si recò in visita a Gerusalemme con una sincerità d’intenti nella sua ricerca della pace. Tutto Israele si fermò per accogliere Sadat quando Menachem Begin, l’allora premier israeliano, lo ricevette. Ci fu la restituzione della penisola del Sinai da parte di Israele in cambio di una pace durevole con l’Egitto, che il Cairo ha mantenuto fino ad oggi. Ma Yasser Arafat mise al bando la sincerità nella sua professione di pace, che continua a mancare con i palestinesi che rifiutano di accettare gli ebrei come “l’altro”, con dei propri diritti, la negazione dei quali significa solo la mancanza di volontà dei palestinesi di fare pace.
Quanto a me, nonostante il dolore e la furia della battaglia che imperversa in tutta Gaza, faccio tesoro del dolce ricordo della mia visita a Gerusalemme. Era un sabato sera, poco prima della fine dello Shabbat ebraico, mentre percorrevo la Strada di Jaffa nei quartieri della città vecchia per andare a dire le mie preghiere serali alla Cupola della Roccia. Più tardi, sotto una luna brillante, mi diressi verso il Muro Occidentale, e lì, fra i miei fratelli ebrei assorti nelle loro preghiere, mi trovai a recitare accanto al Muro Occidentale alcuni versetti del Corano e a pregare per la pace per tutti i figli di Dio. Trascorsi poi la parte migliore della serata seduto nella piazza del Muro del Pianto ad assorbire i suoni che mi circondavano di un popolo che festeggiava con gioia i riti della propria fede religiosa. Ricordo che quella sera, quando cercai di accedere al Monte del Tempio e mi diressi verso la Cupola della Roccia, venni fermato dalle guardie di sicurezza palestinesi e fui tenuto a dimostrare di essere un musulmano recitando alcuni versetti del Corano. Cosa che feci. Ma percorrendo la strada che mi avrebbe condotto al Muro Occidentale attraversai un posto di controllo israeliano all’entrata della piazza senza battere ciglio e nessuno sospettò di me. Questo fu per me un sollievo e un segno, e sentii che in un luogo sacro di preghiera come lo era il Muro Occidentale, ogni pellegrino che cercasse sinceramente la riconciliazione con “l’altro” avrebbe dovuto anche essere sincero nella lotta volta a far sì che la parola di Dio illuminasse il suo cuore. Il resto poi sarà facile come respirare.
Se solo gli arabi e i musulmani smettessero di essere dei Guerrieri del Deserto e imparassero a essere Gente del Libro, pregare al Muro Occidentale sarebbe facile ed edificante per loro come pregare alla Cupola della Roccia – mettendo da parte le dispute del passato nel festeggiare la pace che passa attraverso la riconciliazione con “l’altro”. Mentre mi allontanavo dal Muro Occidentale, mi resi conto, quasi come se fosse una certezza, che gli ebrei sono ancora in attesa che i palestinesi, gli arabi e i musulmani li riconoscano come “l’altro”, con le paure e le speranze nei loro cuori non differenti dalle nostre. Così facendo si potrebbe giungere alla riconciliazione, mettendo fine a così tante dispute assurde. Che queste dispute persistano, che il suono della battaglia è più forte della chiamata alla preghiera, significa – nella logica impenetrabile e nell’oscuro animus di Hamas e dei suoi sostenitori fra i palestinesi, gli arabi e i musulmani – che la guerra infinita con gli ebrei è ancora da considerarsi preferibile alla riconciliazione e al vivere insieme a loro in pace.
(*) Gatestone Institute
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:52