Dopo la Crimea, l’Ucraina rischia di perdere altre due regioni sotto la pressione militare russa. Nei territori di Donetsk e Luhansk si è votato per la secessione dal governo di Kiev, con le solite modalità crimeane: nessun controllo internazionale, nessuna verifica dei documenti (bastava mettere la propria firma su un pezzo di carta), urne trasparenti, voto palese e militari (russi e milizie locali) presenti in gran numero. Non si è votato in tutte le città delle due regioni. A Mariupol, dove le forze di sicurezza ucraine sono intervenute in modo massiccio, provocando almeno 7 morti nei giorni scorsi, non si è votato, se non in una manciata di seggi improvvisati. In altri casi, città più filo-ucraine hanno optato per il boicottaggio e non hanno aperto i seggi referendari.
I risultati non sono ancora noti, ma i pro-russi ritengono che tra l’89 e il 96% della popolazione abbia votato per la separazione da Kiev e sia pronta a confermare anche l’unificazione con la Federazione Russa, esattamente come in Crimea. Il risultato ufficiale, probabilmente, è già stato scritto ed è noto al Cremlino… prima ancora dell’ingresso del primo elettore nei seggi. Un sondaggio Pew Research Center il mese scorso, prima dello scoppio dei disordini nell’Est ucraino rilevava tutt’altra situazione, con una maggioranza del 70% a favore dell’unione dell’Ucraina e solo un 18% favorevole alla secessione. L’Est ucraino, secondo lo stesso sondaggio, esprime una grande insoddisfazione nei confronti del governo di Kiev: la fiducia nei suoi confronti è espressa solo dal 24% degli abitanti locali. Ma questo non esprime, appunto, la volontà di farsi annettere dalla Russia, separandosi dal resto del Paese. Solo 30% esprime l’intenzione di avere “legami più stretti” con Mosca (il 21% li vorrebbe con Bruxelles e il 35% con entrambe) ma non un’unione vera e propria. È molto probabile, dunque che da questo referendum esca un risultato completamente fuori dalla realtà, più ancora rispetto a un sondaggio, condizionato com’è da criteri e condizioni di voto impossibili, come quelli che abbiamo visto prima. Eppure Mosca dichiara ufficialmente che il plebiscito nell’Est ucraina esprima “la volontà del popolo” e che il governo di Kiev ne debba tener conto. Tuttavia, sia il Cremlino che la “Repubblica Popolare di Donbass” (l’Est ucraino) non sembrano così lanciati verso l’annessione e non paiono, almeno per ora seguire il copione della Crimea. C’è molta più prudenza nelle dichiarazioni di Mosca. Già venerdì Putin aveva fatto una parziale marcia indietro, riconoscendo la legittimità del voto nazionale ucraino (previsto per il prossimo 25 maggio) e, addirittura, invitando i separatisti del Donbass a rimandare il loro referendum. Ora che il referendum si è comunque tenuto, Putin non sembra voler premere sull’acceleratore dell’annessione immediata, ma si limita a invitare l’Ue e gli Usa al dialogo con il governo di Kiev e con i separatisti. Denis Pushilin che rappresenta i pro-russi della regione del Donetsk è a sua volta prudente e non esclude di saltare il prossimo turno del voto, quello previsto per la settimana prossima, che avrebbe dovuto decidere l’annessione o meno delle due regioni del Donbass alla Russia.
Appare già più decisa l’Unione Europea, in questa fase del confronto. Angela Merkel e François Hollande, in conferenza stampa congiunta, hanno definito una “farsa” il referendum dell’Est ucraino. E hanno preannunciato il nuovo round di sanzioni contro la Russia: da oggi, due aziende della Crimea e 13 personalità politiche russe della penisola annessa sono state colpite da misure restrittive individuali, che includono il congelamento dei conti all’estero e il ritiro dei visti di ingresso. I ministri degli esteri europei stanno comunque ancora discutendo su quali sanzioni economiche possano essere imposte alla Russia stessa, quali settori produttivi colpire, quando e in quali circostanze.
In generale, tra le due parti maggiormente interessate (Ue e Russia) prevale l’attendismo, in vista delle elezioni ucraine del 25 maggio. Di qui ad allora sarà ancora possibile per Mosca destabilizzare il Paese e per l’Ue rispondere con altre sanzioni che contribuiscano all’isolamento internazionale della Russia. Certo è che il “rullo compressore” di Putin, almeno in questa fase, sembra aver subito un brusco rallentamento. Magari è la volta buona che la crisi finisce.
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:50