La dottrina Blair contro la Jihad

Tony Blair ha parlato. Il soggetto del suo discorso è l’Islam. Il suo, due giorni fa, non è stato un discorso ufficiale e neppure politico, considerando che l’ex premier laburista, ispiratore del più liberale New Labour, è fuori dai giochi dal 2007. Tuttavia si tratta di un discorso importante, per i suoi contenuti. Uno di quei discorsi che possono diventare “paradigmatici”. Come la Reagan Doctrine (pronunciata proprio in Inghilterra) fu una guida per combattere e vincere la guerra fredda, in futuro sarà forse possibile parlare di una Blair Doctrine, per vincere la guerra contro la nuova Jihad. È una visione strategica complessa, onnicomprensiva, declinata ai singoli casi di fronti caldi di lotta politica e militare in corso: l’islamizzazione dell’Europa, la guerra di Siria, la lotta politica in Egitto, la Jihad africana, la crisi mediorientale sono tutte analizzate con un punto di vista originale e affrontate con proposte di soluzioni concrete.

Il cardine di questa “Dottrina” è, prima di tutto, nell’analisi del fenomeno jihadista. Mentre gli studiosi più pignoli tendono a considerare ogni singolo evento come un caso a sé, a negare analogie fra quel che avviene in Nigeria e quel che succede in una scuola britannica, fra la guerra in Siria e il lungo conflitto in Afghanistan, Blair individua invece un’unica causa per tutte queste grandi e piccole crisi: “Negli ultimi 40-50 anni – ha detto Blair – c’è stato un incessante flusso di finanziamenti, proselitismo, organizzazione e divulgazione dal Medio Oriente, per promuovere una visione della religione mentalmente ristretta e pericolosa. Sfortunatamente sembriamo ciechi di fronte all’immenso impatto globale che questa predicazione ha avuto e sta avendo tuttora”. Il pericolo riguarda soprattutto il Medio Oriente, in cui “le popolazioni spesso devono affrontare una scelta fra un governo autoritario che è almeno tollerante sulla religione e il rischio che, rovesciando un governo impopolare, si finisca sotto una semi-teocrazia intollerante”. Ma il pericolo, sottolinea lo stesso premier, riguarda anche l’Europa, dove “la popolazione musulmana ha raggiunto i 40 milioni di individui ed è in crescita. I Fratelli Musulmani e altre organizzazioni sono sempre più attive e agiscono senza troppi controlli o restrizioni. Le recenti controversie sulle scuole di Birmingham (e simili situazioni in Francia) dànno origine a preoccupazioni crescenti sulla penetrazione islamica nelle nostre società”. Per quanto riguarda le scuole di Birmingham, Blair si riferisce a scuole pubbliche britanniche, frequentate da una maggioranza di immigrati musulmani che hanno di fatto imposto l’islamizzazione dei programmi.

Il fatto che sia Blair ad additare il pericolo è sia un vantaggio che uno svantaggio. Un vantaggio perché non è uno xenofobo, ma un rispettato leader della sinistra europea, laico e tollerante. Dunque non cade nelle solite trappole intellettuali, tipiche di una destra populista che confonde lo jihadismo e il radicalismo islamico con la religione musulmana nel suo complesso, o addirittura con l’immigrazione nel suo insieme. Blair sa che si sta parlando di ideologie, fondate su una “visione ristretta della religione”, non di interi popoli o di intere religioni. Al tempo stesso, è uno svantaggio per le stesse identiche ragioni: proprio perché laico, di sinistra e meno abituato ad affrontare fenomeni religiosi, quando era al governo, Blair non ha fatto nulla per frenare la valanga jihadista. Anzi, in molti casi l’ha persino incoraggiata. Nella sua stessa organizzazione, la Faith Foundation, dedita al dialogo inter-religioso, viene contestata dalla stampa britannica la presenza di due consulenti legati ai Fratelli Musulmani. Come fa un leader britannico, intento a risvegliare le coscienze occidentali sulla minaccia della Jihad ad accettare simili collaborazioni? E, appunto, la storia del rapporto fra Blair e l’estremismo islamico è piena di queste contraddizioni. Fu il suo governo ad incoraggiare l’istituzionalizzazione di tribunali islamici in Gran Bretagna, autorizzati definitivamente nel 2008 dal suo successore laburista Gordon Brown. Fu sempre il suo governo a sdoganare politicamente il premier islamico turco Recep Tayyip Erdogan (di cui ora si vede il vero volto autoritario), i Fratelli Musulmani in Egitto e Hamas a Gaza, quando entrambi i movimenti, anche su pressione britannica, tornarono ad essere legali e a partecipare alle loro elezioni. Proprio alla luce di questo passato recentissimo, il discorso della “Dottrina Blair” suona come una conversione, anche se in esso mancano del tutto le due paroline magiche: “Ho sbagliato”.

Il valore del discorso è dunque nel suo contenuto, dimenticando per un attimo chi lo ha pronunciato e gli aspetti più discutibili della sua azione politica. Per Blair, è attualmente in corso, in tutto il Medio Oriente allargato, “una lotta titanica fra coloro che vogliono abbracciare un mondo moderno – politicamente, socialmente ed economicamente moderno – e coloro che, invece, vogliono creare una politica della differenza e dell’esclusivismo religioso. Questa è la battaglia. Questo è l’elemento distorsivo. Questo è ciò che rende l’intervento (occidentale, ndr) così doloroso e il non-intervento altrettanto doloroso. Questo è ciò che rende così difficile il processo di evoluzione politica. Questo è ciò che rende duro il terreno in cui la democrazia dovrebbe mettere le sue radici”.

Sembrano parole scontate, ma non lo sono. Finora, infatti, Blair, Bush e soprattutto Obama hanno sempre tracciato la linea di demarcazione fra la democrazia e la dittatura, sostenendo la prima e combattendo la seconda. Blair fa un passo oltre, verso il liberalismo: indipendentemente dalla forma di governo, è la libertà che va difesa, prima ancora che la democrazia. Non a caso, in Egitto, l’ex premier britannico ha sostenuto la rivolta del Cairo che ha rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani (democraticamente eletto) per riportare al potere un esecutivo più laico e protetto dai militari. Nel caso della Siria, contrariamente a quel che pensa Obama, Blair ritiene che i nemici siano da entrambe le parti: gli jihadisti da un lato e Assad dall’altro. Vanno coinvolti entrambi in una transizione, vanno entrambi combattuti nel momento in cui diventano un pericolo. Blair, contrariamente alla sinistra più ingenua, ritiene che le Primavere Arabe siano fallite nel momento in cui, col voto democratico, hanno portato al potere partiti totalitari. In tutti i casi sollecita un sostegno chiaro a quelle forze laiche che possono garantire la libertà religiosa, economica, politica e personale. Solo dopo una maturazione di questo tipo si può parlare di democrazia, non prima. Il sistema democratico, come sottolinea l’ex premier laburista, non è in grado, in sé, di cambiare la realtà, o le idee di un popolo. Semmai, “è un modo di pensare e un metodo”. Un modo di pensare, nel senso che parte dall’accettazione pacifica della vittoria del partito avversario. Un metodo, nel senso che sostituisce il governo periodicamente senza ricorrere alla violenza. Un partito totalitario, anche se vince una tornata elettorale regolarmente e senza brogli, non può considerarsi “democratico”. E dunque va combattuto, come se fosse una dittatura.

Contrariamente agli scettici, Tony Blair è convinto che si possa vincere questa sfida globale contro il nuovo nemico. Sostiene una politica interventista, cerca di risvegliare i governi democratici dal sonno del pessimismo. Purtroppo si ritrova circondato da leader che hanno un’idea ingenua della democrazia (Obama) o una visione cinica di disimpegno dal resto del mondo (praticamente tutti i governi europei). Inviterebbe anche Russia e Cina a partecipare a uno sforzo congiunto contro un radicalismo religioso che minaccia i loro stessi territori. Ma la Russia, come si vede in questi mesi, vede un solo nemico: la Nato. E la Cina è troppo impegnata nel suo nuovo espansionismo nel Pacifico (ai danni dei vicini, fra cui il Giappone) per pensare a una lotta di ampio respiro al fianco degli occidentali. Probabilmente la Dottrina Blair, anche per questi motivi, è destinata a rimanere lettera morta. Perché non ci ha pensato prima?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:52