«Quante mine ci vogliono per fare un campo minato?». «Nessuna, basta un comunicato stampa». Questo dialogo surreale avvenne nel 1991. La domanda la fece un giornalista, in conferenza stampa. La risposta la diede il generale Schwarzkopf, allora comandante delle forze statunitensi, durante la Guerra del Golfo. Venne presa ad esempio dallo scrittore Tom Clancy per sottolineare la potenza americana: basta un comunicato per terrorizzare il nemico, specie se l’arma in questione è così insidiosa e invisibile come una mina. Sono passati 22 anni da allora e i rapporti di forze paiono ribaltati. Ad Al Qaeda, un’organizzazione terroristica nata proprio all’indomani della Guerra del Golfo (per vendicare la presenza di soldati “infedeli” in un territorio sacro all’Islam), basta meno di un comunicato stampa per far chiudere le ambasciate statunitensi in 20 Paesi musulmani ed evacuare in cittadini americani dallo Yemen.
È bastata una telefonata di Al Zawahiri, ideologo di Al Qaeda, ai suoi luogotenenti yemeniti, per provocare la più grande fuga di diplomatici della storia americana. Il pericolo di attentati, in questi giorni, è considerato molto seriamente dal Dipartimento di Stato. Ed è stata confermata anche dai servizi segreti yemeniti, che affermano di aver tracciato 25 militanti di Al Qaeda entrati nella capitale, clandestinamente, negli scorsi giorni, intenti a preparare un attentato. Solo ieri, lo Yemen ha rivelato i nomi dei sospetti. Secondo fonti di intelligence del New York Times, la telefonata di Al Zawahiri costituisce la più grave minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti dal 2001. Altrettanti segnali di pericolo non erano stati considerati abbastanza seriamente nel settembre del 2012, quando una folla di estremisti ha attaccato l’ambasciata al Cairo e i terroristi, la notte stessa, hanno assaltato il consolato a Bengasi, assassinando l’ambasciatore Christopher Stevens. Allora il Dipartimento di Stato non aveva ritenuto così probabile il pericolo di un attentato in occasione dell’11mo anniversario dell’11 settembre.
Tanto è vero che un ambasciatore era stato inviato a Bengasi (che non è neppure la capitale della Libia) in una sede diplomatica secondaria, priva di protezione militare e con una sicurezza affidata in gran parte a forze locali. Forze non del tutto affidabili, per usare un eufemismo. E questo nonostante i segnali di pericolo fossero evidenti e numerosi e la Cia ne fosse a conoscenza, come è risultato dai documenti declassificati nelle interrogazioni al Congresso. Il Dipartimento di Stato aveva dato per scontato che la Libia post-Gheddafi e l’Egitto post-Mubarak (ma soprattutto la Libia, liberata dal dittatore grazie all’intervento armato americano) fossero amichevoli nei confronti degli Usa. L’assenza di prevenzione del settembre 2012 e l’iper-prevenzione di questi giorni dell’estate del 2013, paiono due opposti estremi. Agli occhi di un leader terrorista di Al Qaeda, però, potrebbero entrambi apparire come segnali di una grande debolezza.
Nel primo caso, gli Usa non hanno saputo difendere un loro ambasciatore, né hanno saputo reagire una volta subita l’offesa. Nel secondo, invece, gli Usa rinunciano addirittura a difendere le loro sedi diplomatiche, chiudendole per un periodo di sicurezza. In realtà, entrambi gli episodi sono le due facce della stessa medaglia politica: la totale sfiducia che gli Usa iniziano a nutrire nella propria forza all’estero. Nel primo caso (11 settembre 2012) la sicurezza era data per scontata perché affidata a forze locali, in Paesi considerati amici. Non perché Washington contasse su forti difese statunitensi all’estero, anche in un luogo instabile come Bengasi. Se gli Usa non sono intervenuti con la forza, né durante né dopo l’assalto al consolato, è perché non hanno voluto inimicarsi un Paese che loro stessi avevano contribuito a liberare. Non perché non avessero la possibilità di intervenire (sarebbe stato tecnicamente possibile intervenire anche durante le due ore di scontro di fronte al consolato).
Nel secondo caso, invece, il Dipartimento di Stato ha realizzato pienamente che ci sono almeno 20 sedi diplomatiche in zone a rischio. Ma non chiede più marines a protezione, anche se potrebbe farlo. Appena la minaccia jihadista si fa seria, preferisce chiudere i battenti. Almeno per un periodo di alcuni giorni. Washington preferisce non agire, per evitare sin da subito di inimicarsi altri Paesi arabi. Vuol dire che si dà ormai per scontato che ogni presenza armata degli Stati Uniti all’estero è foriera di conflitti perdenti. Da che mondo è mondo, però, una nazione che si considera la prima potenza del globo si riconosce proprio per la sua proiezione di potenza all’estero, per la sua capacità di intimidire e/o farsi rispettare anche senza sparare un colpo. Di vincere una battaglia con un solo comunicato stampa, magari.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:35