Il primo test politico per la Repubblica Islamica dell’Iran risale al 2 marzo scorso, con le elezioni per il rinnovo del Parlamento. Dopo le presidenziali del 2009, la tornata elettorale per il rinnovo del Majles ha rappresentato il metro di misura per valutare lo stato di salute dell’apparato governativo. Un sistema già profondamente segnato da lotte di potere e faide interne. Una crisi che si è acuita in vista delle elezioni del marzo scorso, con la candidatura di partiti conservatori in combutta tra loro e accaniti sfidanti provenienti dalla ristretta cerchia di “ex fedelissimi del regime”.
A pesare come un macigno anche la scarsa affluenza alle urne, segno tangibile del dissenso diffuso tra gli elettori. A giocare un ruolo non del tutto marginale anche l’azione di boicottaggio da parte dell’ala riformista. Numerosi gli appelli rivolti dalla Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, ai cittadini affinché non andasse perso il loro diritto di voto in un momento “delicato” per la storia iraniana. Proprio l’affluenza alle urne è un indice fondamentale per valutare lo stato di salute del regime. Nelle elezioni del 2008 per il rinnovo del Parlamento l’affluenza alle urne si era attestata intorno al 50%; mentre una grande partecipazione si registrò nel 2009 con le elezioni presidenziali. Secondo le stime fornite dal Ministero dell’Interno, il 12 giugno di quattro anni fa circa l’85% degli aventi diritto si recarono alle urne.
Era dai tempi del riformista Mohammad Khatami – quinto presidente della Repubblica Islamica ed eletto per due mandati consecutivi (1997-2001 e 2001-2005) – che non si registrava una massiccia affluenza ai seggi. Gli analisti pronosticavano che in virtù dell’alta affluenza, gli sfidanti riformisti avrebbero avuto la meglio. Ma la politica iraniana, si sa, non ha nulla di scontato. Tra poco più di un semestre il Paese sarà chiamato nuovamente alle urne. Il 14 giugno prossimo 48 milioni di elettori dovranno decidere chi sarà il successore di Ahmadinejad. Al momento non sono state diffuse le liste dei candidati ufficiali, ma i primi nomi su chi potrà competere (Ahmadinejad non è più ricandidabile per più di due mandati), già si sprecano.
Si è fatto il nome di Alì Larijani, attuale presidente del Parlamento e figura di spicco della politica iraniana. È circolato anche il nome di Akbar Hashemi Rafsanjani. Negli ultimi mesi, il ricco e influente Rafsanjani ha tentato nuovamente d’imporsi come protagonista nella politica interna e non solo. Nell’ultimo vertice dei Paesi non allineati di Teheran, ad esempio, si è fatto puntualmente vedere accanto alla Guida Suprema Alì Khamenei e al Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon. Personaggio di spicco della politica iraniana, presidente dell’Iran dal 1989 al 1997, è senza dubbio una delle figure fondanti della Repubblica Islamica e per lungo tempo è stato il braccio destro dell’Ayatollah Khomeini. Durante le proteste anti-governative seguite alle elezioni del 2009, l’ex presidente nonché storico nemico di Ahmadinejad, si è apertamente schierato a favore dei manifestanti.
Più volte è stato indicato come la vera eminenza grigia dietro la cosiddetta Onda Verde. Ma se il nome di Rafsanjani risulta essere solo un’ipotesi remota, quello di Larijani appare sempre più credibile. Si tratta di una figura influente nel panorama politico iraniano, anzitutto per le sue origini illustri: è infatti figlio di Mirza Hashem Amoli, uno dei Grandi Ayatollah. Sin dagli anni ‘80, il nome di Alì Larijani è riecheggiato in tutti i “corridoi” dell’establishment persiano. Nel 1981, a soli 23 anni, Larijani viene nominato viceministro del Lavoro nel governo Moussavi. Nel 1989, con l’elezione di Akhbar Hashemi Rafsanjani, diviene viceministro dell’Informazione. Una carriera in ascesa la sua, culminata con la carica più prestigiosa: quella di Capo del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale, incaricato di gestire tra le altre cose anche la politica nucleare.
Già eletto Presidente del Parlamento nel 2008, viene confermato anche nel 2012. Dal canto suo, il presidente uscente Ahmadinejad vorrebbe passare il testimone al consuocero Esfandiar Rahim Mashaei, assai inviso alla Guida Suprema. La sfida interna per le prossime presidenziali è partita ufficialmente. Ma in questo gioco delle parti, manca un tassello fondamentale. I fatti del 2009 sembrano oramai lontani. In questi quattro anni, l’opposizione iraniana è stata ridotta al silenzio assoluto. Per capire come e perché la stagione delle proteste di strada si sia dissolta nel nulla, L’Opinione ha intervistato la professoressa Farian Sabahi, docente di Storia dei Paesi Islamici, presso la facoltà di Lettere dell’Università di Torino.
«Il movimento verde è stato di fatto decapitato con l’arresto e la prolungata detenzione di Karroubi e Moussavi - spiega la professoressa Sabahi - Tra i leader dell’Onda Verde c’era anche l’ex presidente riformista Khatami, che però non ha mai dimostrato un coraggio da leone. Restava l’ex presidente Rafsanjani, che nel 2005 aveva perso la corsa elettorale contro Ahmadinejad e per questo aveva il dente avvelenato. Ma in questi giorni, due dei suoi cinque figli sono stati arrestati, forse vittime predestinate del braccio di ferro della politica. Mehdi Hashemi era appena tornato da Londra, dove si era rifugiato nel 2009, durante le proteste del movimento verde che il padre (e la famiglia) avevano appoggiato. È stato arrestato per propaganda contro il regime e corruzione. 50 anni, sua sorella Faezeh è giornalista ed è stata deputato, anche lei è finita nel carcere di Evin, condannata a sei mesi per aver diffuso propaganda contro lo Stato.
Difficile a dirsi se l’arresto dei figli è un modo per mettere a tacere il padre, alla vigilia delle presidenziali del 2013, o se invece Rafsanjani, forse, usa i figli come pedine, consenzienti, in un gioco di cui vedremo presto le prossime mosse».Le elezioni per il rinnovo del Parlamento svoltesi il 2 marzo scorso hanno fatto registrare una scarsa affluenza alle urne. E anche la massiccia presenza di partiti conservatori e le diatribe interne tra la Guida Suprema e l’attuale presidente non fanno presagire nulla di buono. Secondo Sabahi «È difficile esprimere un giudizio netto, perché la politica iraniana non si gioca in bianco e nero. E non è per nulla trasparente: tanto è fatto dietro le quinte, e non ci è dato sapere.
Certo è che la situazione è decisamente tesa, e a peggiorarla sono le sanzioni e l’isolamento internazionale, la crisi economica e la svalutazione del rial, la valuta locale». Il 14 giugno l’Iran è chiamato alle urne. Per quanto riguarda i pronostici sulle candidature, la professoressa Sabahi ritiene che: «Tutto è possibile, Larijani è vicino al leader supremo Khamenei, è il presidente del Parlamento (e suo fratello a capo della magistratura) e non è la prima volta che si candida. Ma non dimentichiamo che nel 2005 nessuno si aspettava la vittoria elettorale di Ahmadinejad, a quel tempo sconosciuto. Bisogna anche vedere se Rafsanjani, dopo l’arresto di due figli con l’evidente avallo del leader supremo Khamenei, deciderà comunque di candidarsi. Rafsanjani è un uomo pragmatico, e farà quello che gli conviene.
Oggi presiede il consiglio per l’interesse nazionale (che serve a dirimere le dispute di un sistema politico complesso) ma che agli analisti pare meno importante di un tempo. Non è più Rafsanjani a guidare la preghiera del venerdì a Teheran, ma resta potente e il mese scorso, durante il vertice dei Paesi non allineati che si è tenuto a Teheran, è entrato in sala con il leader supremo Khamenei e si è seduto di fianco al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon». Vedremo candidature femminili? Stando alle dichiarazioni di Amir Khojaste, presidente della commissione parlamentare iraniana per le riforme istituzionali, si sta lavorando ad una serie di modifiche delle normative attualmente in vigore...«Possibile, anche se difficile: le iraniane fanno politica ma al momento sono diventate deputato oppure vicepresidente. Una figura che potrebbe coagulare consensi potrebbe essere Zahra Rahnavard, la moglie di Moussavi, il leader del movimento verde. Ma la sua candidatura sarebbe ovviamente bocciata dall’establishment.
In ogni caso non dobbiamo lasciarci trarre in inganno, perché più di una volta sullo scenario mediorientale le candidature femminili arrivano dal campo conservatore e sono uno specchietto per le allodole, non servono granché a promuovere i diritti. Anche in questo caso, prima di cantare vittoria dobbiamo valutare con attenzione di chi si tratta».
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:43