
Si è chiusa una settimana di passione, trascorsa a bordeggiare tra le giovanili utopie spinelliane dello Stato dittatoriale europeo – utopia novecentesca rinnegata dallo stesso Altiero Spinelli nella fase della maturità – evocate da una sinistra in evidente stato confusionale e lo psicodramma inscenato a Bruxelles dalla presidente Ursula von der Leyen, e dalla signora Kaja Kallas, Alto rappresentante dell'Unione europea per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, sulla minaccia rappresentata dall’armata russa alle porte dell’Ue e sull’obbligo, impegnativo per tutti gli Stati membri, di preparare la difesa contro l’invasore. L’auspicio è che nei prossimi giorni calino le temperature raggiunte nel dibattito politico e si torni a ragionare di cose concrete, con il metro virtuoso della serietà. Il che comporta stare con i piedi piantati in terra. Sembrerebbe una banalità dirlo, ma in tempi di follia imperante il buonsenso fa notizia.
Riguardo alla questione del riarmo, sostenere che il problema non sussista e che in Italia ci si debba occupare d’altro è un esercizio di stucchevole ipocrisia “benaltrista”. Bisogna adeguare la spesa per la Difesa ai parametri del 2 per cento del Pil, come stabilito in ambito Nato oltre un decennio orsono. Un impegno solenne, confermato da tutti i Governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi in questi anni, e mai onorato. L’Italia, per il 2025, prevede di spendere per il comparto della Difesa 31 miliardi 298 milioni di euro, che sono pari all'1,43 per cento del Pil 2024, molto sotto la media dell’Alleanza. Posizione insostenibile, soprattutto se poi, sul fronte politico-diplomatico, si pretende di avere voce in capitolo. Quindi, considerando che il Pil del 2024 si è attestato a 2.192,2 miliardi di euro, l’aumento di spesa pari a quel mezzo punto di Pil, necessario per traguardare la soglia del 2 per cento, ammonterebbe a circa 10 miliardi di euro. Che nelle previsioni di spesa del bilancio pubblico non ci sono. Andrebbero trovati tagliando i costi inutili della Pubblica Amministrazione, ma sappiamo bene quanto la locuzione “spending review” sia ostica per la politica italiana.
Comunque, rispettare l’impegno del 2 per cento – che è un’esigenza indifferibile – non basterà. I nuovi scenari, determinati dall’evoluzione (disastrosa) della guerra russo-ucraina e il ritorno di Donald Trump sulla scena globale, hanno scoperchiato il vaso di pandora delle mai sopite vocazioni egemoni dei galletti del pollaio Europa. A un primo tentativo, respinto, del “Napoleone” francese, Emmanuel Macron, di intestarsi la guida geostrategica dell’Unione col pretesto di essere la Francia l’unico tra i Paesi comunitari a possedere l’arma nucleare, è seguito quello del Regno Unito che, dopo anni di sdegnata Brexit, ha deciso di avere un dialogo sul fronte strategico con l’Unione europea, e anche qualcosa in più di un dialogo. Depotenziata d’intensità la fuga in avanti del premier britannico Keir Starmer, che avrebbe voluto trascinare gli europei a combattere i russi sul suolo ucraino senza il sostegno dell’apparato bellico statunitense, dobbiamo fare i conti con due grosse novità, nessuna delle quali particolarmente confortante: la decisione tedesca di avviare un proprio piano di riarmo di circa 100 miliardi di euro e la notizia che la Cina, rimasta per giorni silente a osservare l’evolversi del confronto tra Washington e Mosca, si è detta interessata a schierare proprie truppe in un’operazione di peacekeeping sul confine russo-ucraino, sotto le bandiere dell’Onu. I due ultimi elementi chiudono il cerchio sulla follia suicida che è stata per l’Europa la prova di forza con la Russia per interposto esercito ucraino.
Alla fine della fiera, ci ritroviamo con un mare di denari spesi per sostenere un popolo il quale, pur avendo il sacrosanto diritto di difendersi dall’aggressione russa, ugualmente esce sconfitto dalla guerra; con gli Stati Uniti che escludono dal club dei grandi player globali i Paesi dell’Unione europea; con la Cina che, dopo aver conquistato i mercati europei, si prepara ad avere un ruolo strategico nel Vecchio Continente; con la Russia, che torna a essere un interlocutore di prima grandezza per le altre potenze globali; con la Germania che, non contentandosi di essere il dominus economico dell’Unione, vuole prendersi l’egemonia anche sul fronte della Difesa comunitaria. Se tale è la cornice nella quale si collocano gli eventi più recenti, che spazio ha l’Italia per non soccombere nella dinamica dei rapporti di forza tra vasi ferro? Non ne ha granché. Il rischio di dover assumere un ruolo subordinato alle forze che, sotto il profilo del potenziale bellico, avranno maggiore peso in Europa, è concreto. D’altro canto, il piano di finanziarizzazione del riarmo dei Paesi Ue, proposto dalla Commissione, non fa per noi. Non siamo nelle condizioni di contrarre altro debito. Finora, la tenuta dei conti pubblici da parte del Governo Meloni è stata apprezzata dai mercati. Lo testimonia l’andamento dello spread tra i Btp e i Bund tedeschi decennali, che la scorsa settimana ha chiuso a +115 punti base.
Che si fa? Si sbaracca la Difesa, come vorrebbe buona parte della sinistra? Certo che no. Esercito, Marina e Aeronautica, hanno bisogno di un piano di modernizzazione dei sistemi d’arma, di intensificazione della formazione specialistica dei reparti operativi; di sviluppo delle nuove tecnologie per la guerra cibernetica e per l’intelligence. Tuttavia, per quanto si possa pensare di stringere i tempi, resta il disallineamento tra le esigenze geostrategiche del Paese e la capacità di munirsi di una forza armata all’altezza delle sfide che la Nazione è chiamata a disputare nel prossimo futuro. Come uscirne? È inutile girarci intorno, l’unica soluzione, che metterebbe a posto tutti i tasselli di questo complicato puzzle, si chiama arma nucleare. Per restare in campo da protagonista, anche nella prospettiva di una cooperazione rafforzata tra Stati dell’Unione europea, l’Italia deve annullare il gap di potenza che la separa dalla Francia. Non potendo immaginare una capacità di spesa pari a quella tedesca, il Governo Meloni ha una carta da giocare con Donald Trump: a fronte del disimpegno Usa dal teatro europeo, negoziare con l’alleato americano il trasferimento a titolo definitivo dell’arsenale nucleare Usa allocato sul suolo italiano.
Il nostro Paese aderisce al piano di condivisone nucleare (nuclear sharing) della Nato; è, dalla sua creazione nel 1967, membro del Nuclear planning Group, che è l’organo di vertice per le questioni nucleari nell'Alleanza; ospita sul territorio, nelle basi di Aviano e Ghedi, circa 90 testate nucleari tipo B61-12 i cui codici di lancio, in caso di guerra, possono essere affidati dai comandi statunitensi a quelli italiani. Se Trump, come dice, è davvero interessato ad avere un rapporto privilegiato con l’Italia, anche in funzione di contenimento delle pretese franco-tedesche, quale migliore mossa tattica che dare l’opportunità a Roma di sedere al tavolo della difesa continentale a pari livello con Francia e Gran Bretagna e presto anche con la Germania che nel gigantesco investimento nel riarmo avrà messo nel conto la dotazione nucleare? Sarebbe un primo passo per accorciare i tempi del riallineamento delle capacità difensive italiane agli standard dei principali partner occidentali.
Nel lungo termine, una volta ripreso il programma di produzione del nucleare a scopi civili, follemente interrotto negli anni Ottanta, si potrà ripensare al suo utilizzo in ambito militare. Nulla di fantascientifico o scandaloso. L’Italia ha avuto in passato un suo programma nucleare militare che ha dato riscontri incoraggianti con la realizzazione di un missile balistico di gittata a 1600 chilometri, denominato Alfa. In fase sperimentale furono effettuati tre lanci di prova, tra il 1973 e il 1976, da una base in Sardegna. Poi, però, la politica rinunciò alla produzione nucleare e il programma venne abbandonato. Erano altri tempi e, come è di moda dire in questi giorni, altri contesti. Oggi che viviamo tempi da leoni, tigri e serpenti, se non si riesce a essere nessuno dei tre, come direbbe la von der Leyen: meglio farsi porcospini. Lei si riferiva all’Ucraina, ma la metafora può funzionare anche per l’Italia: un Paese relativamente piccolo, con scarse risorse finanziarie che può rivelarsi pericoloso per qualsiasi malintenzionato si presenti alla sua porta. A patto però che, se non gli artigli, almeno abbia affilati aculei da esibire.
Aggiornato il 25 marzo 2025 alle ore 09:56