Il 27 gennaio degli antifascisti

Ogn’anno, il due novembre, c’è l’usanza

Per i defunti andare al Cimitero

Ognuno ll’adda fà chesta crianza

Ognuno adda tené chistu penziero.

Sono versi della celebre A Livella di Totò. Ci perdonerà dall’alto dei cieli il principe della risata se li prendiamo a prestito per pennellare il quadro di maniera dell’ipocrita immersione una tantum nella tragedia della Shoah del progressismo nostrano. Già, perché la sinistra si compiace del proprio antisemitismo immaginario una sola volta l’anno: il 27 di gennaio. Poi, in tutti gli altri giorni del calendario torna a essere ciò che è sempre stata, da Karl Marx in giù: la campionessa dell’antisemitismo camuffato da fase della lotta di classe al sionismo. È pur vero che anche gli ebrei italiani sopravvissuti all’Olocausto – e i loro diretti discendenti – per i decenni successivi alla fine della Seconda Guerra mondiale sono stati preda di una drammatica allucinazione: pensare che la sinistra potesse essere immune dal morbo dell’antisemitismo che aveva contagiato le società europee ben prima dell’avvento dei totalitarismi nazista e fascista.

Sarebbe bastato osservare gli eventi in Unione sovietica che, nella repressione delle comunità e degli individui di religione ebraica, non furono da meno ai loro omologhi antisemiti occidentali. E sarebbe bastato guardare alla robustezza del cordone ombelicale che legava i partiti comunisti europei alla casa-madre di Mosca per concludere che il frutto non cade mai lontano dall’albero che lo ha generato. Avrebbero dovuto sospettare dell’entusiasmo con cui tutta la sinistra italiana – non solo quella comunista – si rapportava ai movimenti di lotta del nazionalismo panarabo nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Se gli italiani di religione ebraica avessero avuto maggiore contezza dell’avversione della sinistra verso il diritto del popolo d’Israele a vivere pacificamente nella terra dei loro padri, quel sentimento di abbandono di cui ha parlato Fiamma Nirenstein (F. Nirestein, L’abbandono. Come l’Occidente ha tradito gli ebrei, Rizzoli, Milano, 2002) si sarebbe attenuato. Questo il passato. E il presente? C’è un’altra storia da raccontare e che riguarda il modo subdolo, per non definirlo infame, con cui la sinistra cerca di sviare da sé la riprovazione dell’opinione pubblica per il suo essere congenitamente antisemita.

Quale modo migliore che spostare l’attenzione sul sedicente antisemitismo altrui, in particolare della destra che reca lo stigma del peccato originale? E così accade che il “Giorno della memoria” si trasforma nel “Giorno dell’esame del sangue” a Giorgia Meloni e al suo partito per misurarne il grado di credibilità dell’abiura del fascismo e, conseguentemente, del razzismo. Un esercizio ignobile perché fondato consapevolmente sulla menzogna. La richiesta continua della sinistra, al limite dello stucchevole, alla destra italiana è di fare dichiarazione di fede antifascista, partendo dall’assunto che il post-fascismo rappresentato nella storia repubblicana fino al 1995 dal Movimento sociale italiano fosse rimasto fedele alle leggi razziali volute da Benito Mussolini nel 1938. Un falso storico inaccettabile. Esiste una corposa bibliografia che affronta il rapporto della destra postfascista con gli ebrei e che restituisce molte verità alla vexata quaestio. Tra i testi che trattano compiutamente il tema c’è quello di Gianni Scipione Rossi, La destra e gli ebrei, pubblicato nel 2003. Da lì traiamo una testimonianza decisiva per smontare la fallace teoria secondo la quale il processo di riconoscimento dell’abominio delle leggi razziali volute dal fascismo fosse cominciato dopo la svolta di Fiuggi, con la creazione di Alleanza nazionale e la messa in archivio della scomoda storia del Msi.

Nella mozione conclusiva del Congresso nazionale del partito nel 1973 si legge: “La pace e la sicurezza del Mediterraneo, con la tutela dell’indipendenza e della integrità territoriale di tutti i Paesi rivieraschi – ivi compreso Israele, che ha diritto come tutti gli altri a una pacifica e sicura esistenza – sono elementi essenziali della pace e della sicurezza generali”. E, successivamente, nel 1983 il Msi-Destra nazionale all’unanimità – quindi, anche con il voto favorevole della minoranza rautiana – approva la richiesta di una patria per Israele e una patria per i palestinesi. Ma ben prima degli anni Settanta, il Movimento sociale italiano faceva autocritica sulle scelte antisemite di Benito Mussolini. Nel primo numero, datato 10 agosto 1946, del settimanale della destra postfascista fondato da Nino Tripodi, Rataplan, vi si legge una sentenza senza appello contro le leggi razziali del 1938: “un’odiosa persecuzione contro gli ebrei” e ancora “La lotta assidua, l’aspra diffamazione degli ebrei è una delle colpe, è uno degli errori più odiosi di Mussolini”. Un Mussolini, peraltro, antisemita per calcolo politico e non per sincera convinzione ideale se è vero che è la stessa persona che pochi anni prima del famigerato 1938 aveva dichiarato con l’enfasi retorica che gli era propria: “L’Italia non conosce l’antisemitismo e crediamo non lo conoscerà mai” (B. Mussolini, Ebrei, Bolscevismo, Sionismo, in Il Popolo d’Italia, 19 ottobre 1920). Al giornalista ebreo Emil Ludwig Cohn, che lo intervista nel 1932, il Duce ribadisce: “L’orgoglio nazionale non ha alcun bisogno di deliri di razza”. E riguardo all’antisemitismo di Adolf Hitler, giunto al potere in Germania, uno spavaldo Mussolini tuona durante il Discorso alla Fiera del Levante a Bari il 6 settembre 1934: “30 secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltre Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio, Augusto”.

A conoscere la storia della destra si apprende che le correnti di pensiero antisemite, sopravvissute nel segmento della destra radicale all’ombra del culto della superiorità ariana, non prendevano a riferimento il comportamento ondivago del Duce sull’argomento, ma s’ispiravano direttamente al “millenarismo messianico” del Terzo Reich hitleriano e al corrispondente mito della razza ariana da preservare, in un’Europa nazione, dall’attacco concentrico delle due potenze antropologicamente inferiori e ontologicamente nemiche della destra antidemocratica: gli Usa e l’Urss. Le stesse, incarnazione di due mali opposti e al contempo ugualmente esiziali per l’esistenza autonoma e vitale del Vecchio continente, perché prodotti della medesima matrice storica, la Rivoluzione francese: il liberalismo, fattore propulsivo del capitalismo borghese e il comunismo, padre putativo dell’egualitarismo plebeo.

Quella gioventù, appassionatasi al furore antisemita del fascismo letterario francese dei Pierre Drieu La Rochelle, Leon Degrelle, Robert Brasillach, Maurice Bardèche, Louis-Ferdinand Celine – a diverso titolo e grado tributari del pensiero di Charles Maurras e dell’Action française – aveva Julius Evola nel cuore e intellettuali dello spessore di Adriano Romualdi (figlio di Pino, cofondatore del Msi) e Andrea Emo – l’aristocratico filosofo gentiliano che individuò la “coincidenza tra essere e niente, nel triangolo tra l’eterno, l’attuale e il nulla (M. Veneziani) – come punti di riferimento. Ora, gli attempati e imbolsiti politici che fanno da corona a una giovane Giorgia Meloni sono stati i ragazzi – almirantiani di stretta osservanza – che negli anni Settanta stavano nel Movimento sociale italiano. Ma il partito, con la svolta congressuale del 1952, aveva virato in direzione dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti abbracciando i valori d’ordine e di stabilità nel benessere consumistico della società borghese. Ciò comportò la rottura netta con le idee oltranziste sul filo rivoluzionario della destra estrema che non aveva dimenticato Salò e del “nemico americano” la volontà egemonica resa manifesta dall’espansionismo a sfondo imperialista della sua politica estera.

Parliamo della destra “terzaforzista”, che stava con i movimenti per la liberazione della Palestina contro lo Stato d’Israele, che durante la contestazione del Sessantotto provò a fare sintesi con il Movimento studentesco allo scopo di perseguire il comune obiettivo dell’abbattimento dello Stato borghese, che leggeva con simpatia i testi di Herbert Marcuse, quella destra, che il Msi chiamava deicinesi” per via di certe spericolate aperture all’esperienza del comunismo di Mao Zedong, non ha eredi viventi nell’odierno panorama politico. I protagonisti di quella stagione, dopo essere stati messi sotto pressione dal potere di una giustizia interessata a farne il capro espiatorio di molte nefandezze degli anni Sessanta-Settanta, oggi sono distaccati intellettuali dediti principalmente a una raffinata editoria. Per comprendere il senso dell’antisemitismo della destra radicale si dovrà riaprire il capitolo sulla storia del centro studiOrdine nuovo”, del “Fronte nazionale”, del Gruppo di Ar, e più tardi di “Meridiano Zero”. La sinistra queste cose non le sa o finge di non saperle perché trova conveniente fare il solito di-tutta-un’erba-un fascio per non dover dare conto dell’antisemitismo, a tratti nascosto ma mai rimosso dal proprio Dna. È come diceva Totò: ogni anno c’è un 2 novembre, come c’è un 27 gennaio. In un caso si va al cimitero a commemorare i defunti, nell’altro si chiede a Giorgia Meloni di rifare l’analisi del sangue per vedere a che punto sia il grado di antifascismo raggiunto. In fondo, sempre di morti si tratta.

Aggiornato il 29 gennaio 2025 alle ore 10:11