Era stata presentata come il siluro destinato ad affondare la navicella del Governo Meloni. La trasmissione Report, in onda domenica sera su Rai 3, nelle intenzioni dei curatori del programma, avrebbe dovuto essere un trionfo di fuochi d’artificio nel racconto delle malefatte del ministro della Cultura, Alessandro Giuli. Appunto, avrebbe dovuto. Ma non è andata propriamente come i tifosi dei veleni contro la destra avrebbero sperato. Più che un fuoco d’artificio, la sedicente inchiesta si è rivelata neanche un innocuo petardo. Il tutto si è risolto in un maleodorante intruglio di gossip, insinuazioni, ricostruzioni storiche e filosofiche pasticciate. Il solito stile “report”: inchieste di quart’ordine condite con robuste dosi di scandalismo ancorato al nulla.
Perché tanto scrupolo nel cercare tra le pieghe della vita delle persone di destra elementi validi a sostenere ipotesi corruttive nella gestione della cosa pubblica non è stato impiegato negli anni addietro quando a occupare con mano di ferro il Ministero della Cultura c’era la sinistra? Report dov’era? “Notiziona” per i compagni: Alessandro Giuli resta al suo posto e il Governo non cade. Chiuso il capitolo del trash, occorre comunque che il centrodestra si guardi allo specchio e si racconti la verità. Perché non va tutto bene, madama la marchesa. Se Giuli è finito sulla griglia mediatica non è che sia stato lui, sua sponte, a porgere le terga ai carboni roventi. È evidente che qualcuno, dall’interno della coalizione, ce lo abbia messo. Chi? Il problema è sorto e si è sviluppato nell’ambito del mondo “multietnico” di Fratelli d’Italia. Parliamo di etnie culturali e ideologiche. Probabilmente, non sarà il massimo dal punto di vista lessicale, ma utilizzare la derivazione dal greco ἔϑνος a proposito delle tribù identitarie che convivono nel partito di Giorgia Meloni rende l’idea.
Giuli non è quello che potrebbe definirsi, per stare all’interpretazione del marxismo di Antonio Gramsci, il tipico intellettuale organico al partito. Lo si evince dalle diverse biografie. Da un lato, quella di Alessandro Giuli; dall’altra, quella della maggioranza dei quadri dirigenti di Fratelli d’Italia. La leader Meloni, tra gli ingredienti da combinare per la ricetta perfetta della presa del potere, ha dovuto inserire una ragionevole quantità di ecumenismo ideologico-culturale allo scopo di tenere sotto lo stesso tetto le molte anime di cui si compone la destra italiana. Al primo livello, quello della scrematura che caratterizza la differenziazione tra partiti politici iscritti alla medesima coalizione programmatica – moderati/riformisti, conservatori, sovranisti – è succeduto uno screening di secondo livello, tutto interno al primo partito di Governo.
Se l’immissione, in corso d’opera, di un personale politico non autoctono rispetto alla tradizione post-fascista del Movimento sociale italiano ha avuto su Fratelli d’Italia il medesimo impatto che ebbe un analogo precedente storico – l’ingresso-fusione, il 23 febbraio 1923, nel Partito nazionale fascista dell'Associazione nazionalista italiana fondata da Enrico Corradini – la coesistenza dell’ala legalitaria, filo-atlantica, “americana”, cattolica, filo-israeliana, con la discendenza della destra radicale, tradizionalista, “terzaposizionista” (né con gli Usa, né con l’Urss), filo-araba, rivoluzionaria, “diversamente razzista” è un novus che è riuscito solo a Giorgia Meloni. Ragione per la quale, il fatto che il leader abbia deciso di aprire le porte a quella frazione radicale che negli anni ha svolto un percorso autocritico, sostanzialmente revisionista della propria storia, non significa che tutti i dirigenti in Fratelli d’Italia, che ne costituiscono l’ossatura portante, l’abbiano accettato.
Ed è quindi normale che, di tanto in tanto, riaffiorino disagi e malumori che si fatica a tenere a bada. La storia personale di Alessandro Giuli s’inserisce in questo quadro sinottico. Ciò che rileva non è il fatto che Giuli, da ragazzo, abbia militato nel gruppo extraparlamentare di estrema destra “Meridiano zero”, ma la circostanza che non abbia convintamente aderito al Movimento sociale italiano e, successivamente, ad Alleanza nazionale. Vi è stato un tempo in cui, tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, tutti gli odierni dirigenti di Fratelli d’Italia – eccezion fatta per Guido Crosetto – sono stati fedeli finiani, compresa Giorgia Meloni. A Gianfranco Fini hanno voluto bene e lo hanno rispettato come capo perché assegnato a quel ruolo da Giorgio Almirante. E lo hanno seguito dappertutto. A Fiuggi, quando ha chiuso con il passato post-fascista e mandato in pensione il vecchio Movimento sociale italiano per sostituirlo con Alleanza nazionale; a Gerusalemme, quando ha decretato il fascismo male assoluto; nella cabina elettorale, quando si è messo con Mario Segni e con gli orfani pannelliani. Giuli, no. Non solo non era con loro nella lunga traversata del deserto del “nostalgismo fascista”, ma nutriva nei loro riguardi sommo disprezzo.
In un gustoso pamphlet scritto nel 2007, dal titolo significativo Il passo delle oche, un giovane Alessandro Giuli, già in forza a Il Foglio di Giuliano Ferrara, descrive con le parole poco lusinghiere la classe dirigente di Alleanza Nazionale: “Dall’origine missina piena di tuoni e bagliori mussoliniani, all’ingresso venturo ma non ancora scontato nel Partito popolare europeo, Fini e i suoi sono ritratti come statue parlanti scese dal piedistallo e osservate nel loro camminare. Nel passo incerto e speranzoso di risalita dalle catacombe, una volta abbattuto l’arco costituzionale e giunto a maturazione il disegno inclusivo delle grandi istituzioni rispetto ai missini. Nel passo cadenzato di una classe dirigente divenuta tale, in Italia, per sottrazione generazionale ed ecatombe parlamentare (da Tangentopoli in poi). Il passo altero di un gruppo umano che si è proposto nell’asta pubblica del dopo Guerra fredda esibendo l’alloro degli esclusi, il sorriso equivoco delle vittime, la candida rivendicazione dei diversi che non avevano mai deluso né rubato né promesso invano. Il passo audace di chi ha fatto questo chiedendo di essere messo alla prova, e così è stato. Il passo sghembo di chi, infine esaminato senza finzioni, non ha retto alla sfida e si è rivelato identico agli altri. Il passo delle oche, appunto”.
Non propriamente parole al miele rivolte a persone che, per i bizzarri incroci che ci regala il Fato, sono ancora lì a fare la spola tra i sacri palazzi della politica e il piano nobile di quello in Via della Scrofa. Volete che costoro, che restano troppo umani nonostante le malcelate simpatie per la capoccia di Friedrich Nietzsche, non abbiano coltivato il vizio della memoria lunga e conservino nel cuore tutta la “simpatia” per quel giovin signore che ha pennellato quel bel ritrattino di tutti loro? Ma c’è qualcosa di molto altro, e alto, che giustifica l’incomunicabilità tra i due mondi. Un qualcosa che ha rischiato di perdersi nel pressappochismo giornalistico delle fate ignoranti di Report. Quell’adesione agli insegnamenti evoliani, spiattellati da Report quasi fosse uno stigma, segnalatore visivo di una malattia contagiosa contratta in adolescente età e mai efficacemente curata, una gonorrea del pensiero che mostra le sue maleodoranti polluzioni ogni qualvolta ci si accosti all’insano untore.
C’è una storia intellettuale e politica sulla quale si sono incastonate tante piccole storie di giovani uomini e donne che hanno creduto possibile un superamento rivoluzionario della morale borghese seguendo gli insegnamenti di un grande maestro: Julius Evola. Giuli proviene dal quel mondo di “uomini differenziati” e quel suo aspetto, inopportunamente definito svagato, è il volto postmoderno dell’apolitìa evoliana. Beninteso, apolitìa interpretata non come rinuncia nichilistica, spocchioso abbandono della lotta politica, ma come presa di distanza di chi “aristocraticamente conscio di appartenere a un’altra razza spirituale, differente da degli effimeri mercanti di idee agenti sul piano emotivo, irrazionale, e fideistico che costituiscono la nota dominante dell’attivismo politico, rifiuta di servire un sistema come quello attuale” (Per un radicalismo di destra: cavalcare la tigre di Franco Giorgio Freda).
Giuli conosce il peso che Evola assegna al merito nella costruzione autodisciplinata e auto-formativa dell’individuo. È in quest’ottica che il ministro ha scelto Francesco Spano a capo di gabinetto del Ministero della Cultura. L’omosessualità dichiarata del personaggio non ha inciso sulla decisione. Né avrebbe potuto nella visione di un intellettuale tradizionalista, legato alla grandezza del mondo arcaico della Roma prima repubblicana poi imperiale, comunque pagana. Di quel paganesimo, segnato dal suo tratto iniziatico ma anche dal grado di tolleranza connaturato alla pratica di una religione politeistica e anti-universalistica, che aveva attratto l’interesse del primo Evola. Un tale approccio “filosofico” non poteva piacere alla componente cattolica integralista presente in Fratelli d’Italia la quale, riconoscendosi nella rigidissima morale giudaico-cristiana, ha visto come fumo negli occhi la promozione a un ruolo pubblico apicale del dichiarato omosessuale Francesco Spano.
Da qui l’ulteriore motivo di risentimento nei riguardi di un ministro “diverso”. Un ministro che ha tatuato sul corpo l’aquila imperiale, simbolo della grandezza della Roma pagana. Giorgia Meloni, e sua sorella Arianna, hanno fatto quadrato intorno a Giuli per proteggerlo dal fuoco amico. Il premier non avrebbe potuto fare nulla di diverso se avesse voluto mantenere – e noi pensiamo che lo volesse – l’ecumene di Fratelli d’Italia nella sua ampiezza rappresentativa pur se con innumerevoli sfumature di colore ideologico-culturale. D’altro canto, questo è il prezzo da pagare se si aspira a creare una comunità di destino.
Aggiornato il 30 ottobre 2024 alle ore 09:17