È trascorso un anno dalla carneficina del 7 ottobre, il più grande massacro di ebrei dai tempi dell’Olocausto. Non potremo mai dimenticare le violenze inenarrabili compiute dai terroristi di Hamas nei kibbutz adiacenti alla Striscia di Gaza. Le immagini strazianti dei cadaveri dissanguati e riversi al suolo, i neonati sgozzati nelle culle, le donne stuprate e mitragliate mentre tentano di proteggere le loro famiglie. Gli abitanti delle comunità rurali di Alumim, Be’eri, Kfar Aza, Nir Oz, Netiv Haasara rapiti e confinati – sia da vivi, sia da morti – negli angusti tunnel che si trovano al di sotto dell’exclave “palestinese”. Il sorriso del tenero Kfir Bibas, il bimbo di appena nove mesi con i capelli rossi strappato ai suoi genitori, che sembra dissolversi giorno dopo giorno.
È lui l’ostaggio più giovane della storia. I tagliagole capitanati da Yahya Sinwar hanno ucciso oltre millecento civili in questo tragico Shabbat d’inizio autunno, che ha visto la prima invasione dello Stato ebraico dalla Guerra arabo-israeliana del 1948. Tra le vittime, 364 persone stavano ballando spensieratamente al Nova Music Festival. Molte altre sono state ferite. “Operazione alluvione Al-Aqsa” l’ha ribattezzata Hamas, dal nome della moschea di Gerusalemme. Questo piano non mira a garantire l’autodeterminazione della sedicente “nazione palestinese”, ma punta a un obiettivo mostruoso: lo sterminio del popolo ebraico e la cancellazione di Israele dalla mappa geografica. Il pogrom che si è svolto nel deserto del Negev, pianificato nei minimi dettagli, intendeva ricalcare le orme dell’attacco congiunto di Egitto e Siria avvenuto il 6 ottobre di cinquant’anni fa, in occasione dello Yom Kippur.
A distanza di 365 giorni dal brutale eccidio perpetrato da Hamas, possiamo tracciare un primo resoconto. Chi avrebbe voluto la capitolazione di Tel Aviv è rimasto fortemente deluso. Il trauma intergenerazionale che lega la stirpe di Abramo ha aggiunto un altro, doloroso tassello il 7 ottobre, è vero. Ma questa concatenazione di catastrofi si è trasformata in una forza intergenerazionale che trascende i secoli, i confini, le opinioni politiche. Gli ebrei si sono ricompattati dopo essersi divisi sulla riforma della giustizia proposta a gennaio dal ministro Yariv Gideon Levin, dimostrando una coesione interna e un senso di solidarietà straordinari. È doveroso ricordare fra tutti Eylon Levy, spokesperson del Governo di Benjamin Netanyahu dallo scoppio del conflitto al marzo 2024, già sceso in piazza per manifestare la sua contrarietà al provvedimento. L’ex portavoce ha anteposto il bene comune all’ideologia, mettendo a disposizione il suo talento e l’ottima conoscenza della lingua inglese per servire il Paese che ama.
L’Europa e gli Stati Uniti stanno implodendo. Le città del mondo libero pullulano di antisemiti che celebrano il terrorismo e gridano slogan che non avremmo pensato di riascoltare. I nemici di Israele formano una galassia multiforme, ma facile da inquadrare: include gli estremisti di tutti i colori (rosso, nero, bruno, verde maomettano), provenienti da ogni latitudine. Persino i gruppi femministi e i collettivi Lgbt, che si riempiono la bocca di “diritti umani”, “progresso” e “tolleranza” – salvo poi inneggiare al massacro degli ebrei. Urlano “Israele assassino”; vogliono marchiare le case degli “agenti sionisti”; detestano il pluralismo, ma non si azzarderebbero mai di mettere piede nei regimi da loro tanto decantati. Inoltre, definiscono Israele uno “Stato apartheid” che commette un “genocidio”. Sapranno che l’unica democrazia del Medio Oriente esprime giudici di origine araba alla Corte suprema? Che i musulmani possono professare il loro culto? Che ebrei, drusi, yazidi e cristiani convivono pacificamente? Lo dubito.
Un lembo di terra affacciato sul Mediterraneo che conta appena 9,5 milioni di abitanti sta difendendo l’intero Occidente dalla minaccia del fondamentalismo islamico. Come affermava Marco Pannella, gli Stati che circondano Israele vogliono eliminarlo chirurgicamente perché lo temono, quasi fosse un “tumore democratico”. L’unico avamposto della libertà e dello stato di diritto in Medio Oriente sta riuscendo nell’impresa di spegnere contemporaneamente i quattro fuochi che alimentano la spirale bellica: Hamas a Gaza, Hezbollah nel Libano meridionale, gli Houthi in Yemen e la dittatura teocratica dell’ayatollah Ali Khamenei, la principale finanziatrice delle organizzazioni terroristiche.
La lotta di Israele è una battaglia esistenziale che merita di essere vinta. Piangere ipocritamente gli ebrei morti durante il Giorno della memoria è vano, se non si riconosce il diritto degli ebrei vivi a esistere, a resistere e a prosperare. Tutti noi dovremmo un’imperitura riconoscenza all’esercito israeliano e a quanti stanno combattendo per preservare i valori della libertà, ai quali l’Occidente – in disarmo morale, prim’ancora che politico – sembra aver rinunciato sotto i colpi di un’autoflagellazione che annienta le fondamenta millenarie della nostra cultura. Il ricordo dei caduti del 7 ottobre sia una fonte di benedizione. Oggi più che mai, Israele vive. Am Yisrael Chai.
Aggiornato il 08 ottobre 2024 alle ore 09:45