Morire da schiavo

È la storia più vecchia del mondo: sfruttati e sfruttatori. E, in questo caso, di disperazione e disumanità. Satnam Singh, 31 anni, indiano, è vittima di un incidente sul lavoro. Il braccio destro finisce in un macchinario avvolgi-plastica. E viene tranciato. L’arto viene raccolto e messo su una cassetta della frutta. L’uomo e la moglie, Alisha, portati a bordo di un pulmino vicino casa e non all’ospedale. Poi la corsa contro il tempo, con il ricovero d’urgenza – a bordo dell’elisoccorso – al San Camillo di Roma. Il quadro clinico è pesantissimo: amputazione traumatica, gravi ferite riportate alle gambe, l’emorragia. Singh muore. Il datore di lavoro, un 38enne imprenditore di Borgo Santa Maria, è indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso. Per chi indaga, c’era lui al volante di quel pulmino. Questa la cronaca dei fatti consumati nella periferia di Latina.

Poi c’è il resto, che non è contorno ma sostanza. Perché Satnam Singh, pagato 4 euro all’ora, è l’ennesima croce di quello che viene chiamato caporalato. Caporalato che torna sotto i riflettori quando si palesa la tragedia. Per qualche giorno se ne parla, i politici lanciano alle agenzie i propri comunicati, non mancheranno i presidi e gente che si batte il pugno sul petto. Dopodiché, quando i riflettori affievoliranno la propria luce, tutto finirà. Con la stessa velocità con cui si beve un bicchiere d’acqua.

Resta in sospeso la solita domanda: chi controlla il controllore? In attesa di un altro capitolo tragico. E di una morte da schiavo.

Aggiornato il 20 giugno 2024 alle ore 15:41