Bisognava lasciare che la polvere della propaganda si posasse al suolo per provare a capire cosa fosse realmente accaduto lo scorso fine settimana con il voto delle Europee. A una prima osservazione compiuta a volo d’uccello, si conferma ciò che i “giornaloni” si sono affrettati a scrivere a ridosso della diffusione dei risultati. Vincono Giorgia Meloni, Elly Schlein e la strana coppia Bonelli-Fratoianni di Alleanza verdi e sinistra. Non perdono Forza Italia e Lega. Viene falcidiato il Movimento 5 stelle. Sono spazzati via i cespugli del centro politico e i loro leader affetti da insano narcisismo: Matteo Renzi, Emma Bonino e Carlo Calenda. Tuttavia, facendo ricorso alla tecnica Swot, in uso nell’ambito della pianificazione aziendale per identificare i punti di forza, di debolezza, le opportunità e le minacce in uno specifico contesto, è possibile cogliere a una lettura ravvicinata del dato elettorale due fattori, uno di criticità l’altro di opportunità, decisivi per la ricomposizione del quadro politico.
1) L’affluenza. Queste Europee confermano una “americanizzazione” della partecipazione al voto. Alle urne in Italia si è recato il 49,69 per cento degli aventi diritto, in evidente flessione rispetto al 56,09 per cento delle precedenti elezioni per l’Europarlamento nel 2019 (Fonte: Ministero dell’Interno-Eligendo). Una differenza in negativo di 6,4 punti percentuali a universo elettorale pressoché invariato. Ciò significa che sempre meno gente è interessata a influenzare l’indirizzo di Governo, in particolare a livello comunitario, con il proprio voto. Non è un elemento marginale dell’analisi sulla performance elettorale dei partiti concorrenti. Una minore partecipazione popolare all’esercizio cardine della democrazia “professionalizza”, dopo la pratica dell’attività politica, anche la prassi di partecipazione della cittadinanza all’elettorato attivo. Sorprende che il dato disaggregato dell’astensionismo per circoscrizioni italiane (circoscrizioni estere escluse) mostri una maggiore flessione rispetto alle precedenti Europee non al Sud, come erroneamente è stato dichiarato sui media, ma nell’area della mitica locomotiva d’Italia, la II circoscrizione Italia Nord-orientale. Lì il calo di partecipazione è stato di quasi il 10 per cento rispetto al 2019 (53,96 per cento contro 63,94 per cento). Se questa volta nell’Italia meridionale e in quella insulare la curva della caduta dell’affluenza non è particolarmente accentuata è perché l’astensione era forte già nella precedente tornata elettorale. Anzi, per dovere di precisione si deve dare atto di una leggera crescita dell’affluenza nella circoscrizione insulare dove il dato odierno del 37,77 per cento è migliore del 37,20 per cento registrato nel 2019. Ne consegue che, in linea generale, a decidere in futuro le sorti degli Stati e dell’Unione – visto che in tutta Europa il livello di partecipazione si è attestato sul 51,01 per cento (Fonte: Verian, per conto del Parlamento europeo) degli aventi diritto – saranno soltanto quei cittadini che rispondono alle sollecitazioni delle organizzazioni partitiche più strutturate sui territori e maggiormente ideologizzate. Che non è il massimo. Lo iato tra il sentire reale della popolazione e la composizione degli organi propri della rappresentanza democratica sarà sempre più marcato. Le forze partitiche dovrebbero avviare una seria riflessione sul tema, il cui punto di caduta dovrebbe riguardare un diverso approccio all’attività politica su base partecipata. Ma non lo faranno, perché la tentazione di sfruttare il consenso alla maniera del “pochi, maledetti e subito” resta più forte di qualsiasi aspirazione a guardare lontano, nella direzione di un’ordinata dialettica democratica vissuta alla stregua di un impegno civile dai cittadini comuni in prima persona. Norberto Bobbio scrisse: “La democrazia ha bisogno, più di qualunque altra forma di Governo, di cittadini attivi. Non sa che farsene di cittadini passivi, apatici, indifferenti, che si occupano soltanto dei propri affari comuni”. Dalla postura assunta dalle organizzazioni politiche dall’inizio del nuovo secolo sembra che l’ordine di marcia impartito dalle leadership carismatiche della politica-spettacolo vada nella direzione opposta a quella auspicata da Bobbio. E ciò costituisce una perdita, non una conquista per le società dell’Occidente avanzato.
2) Il bipolarismo. Sebbene le Europee fossero elezioni basate sul sistema di voto proporzionale – quello in cui tutti competono contro tutti – il dato politico emerso dalle urne fotografa un consolidamento della propensione dell’elettorato a polarizzare le proprie scelte. Stupisce che ci si stupisca. Al riguardo, non abbiamo mai pensato che il bipolarismo, nel sentire profondo degli italiani, fosse scomparso e che adesso, per qualche insondabile ragione, fosse miracolosamente riapparso. Per quel che abbiamo compreso della nostra comunità nazionale, soltanto una falsa narrazione ha consentito di accreditare nel recente passato l’idea del ritorno a un multipolarismo degli orientamenti politici, chiamato a cercare composizioni unitarie nell’ambito parlamentare e non prima, nella fase di formazione della volontà individuale di appartenenza a comunità, organizzate nella forma partito o movimento, politicamente e idealmente omogenee. La verticalizzazione della linea di faglia che separa la sinistra dalla destra, con l’avvento della Seconda Repubblica e con la “liberalizzazione” del concetto di “democrazia dell’alternanza” in luogo della “democrazia bloccata”, originata e giustificata dalla separazione del mondo in due blocchi contrapposti al tempo della Guerra fredda, non ha mai abbandonato la percezione dell’elettore. Neanche nella fase di emersione e di massimo sviluppo del fenomeno grillino, che aveva la pretesa (utopica) di proporsi come terza via, in alternativa tanto alla destra quanto alla sinistra. Il rapido declino del Movimento 5 stelle, che ha coinciso con il suo scivolamento nell’area progressista, ha avuto come esito l’aggregarsi a sinistra di una componente qualunquista, innervata da un confuso giustizialismo, che, nella storia repubblicana, era oggettivamente mancata al campo largo del socialismo-socialdemocrazia e del comunismo occidentale. Niente di più. Il dato elettorale conferma che la logica dell’appartenenza a mondi distinti – quello della destra e della sinistra – a loro volta declinati nella formula progressisti contro conservatori-sovranisti, assume nell’immaginario collettivo un significato prepolitico, antropologico in funzione di una diversità valoriale non riducibile a un comune denominatore patriottico.
Il dualismo destra-sinistra, di lontana matrice manichea, induce a rivalutare la categoria schmittiana della contrapposizione amicus-hostis (amico-nemico), posta a difesa dell’agire concreto degli esseri umani dalle suggestioni utopistiche che alterano la realtà. Sarà scorretto dirlo ma la verità è che nello stato di natura della politica non esistono avversari dialoganti, pronti a stringersi la mano in uno spirito di leale competizione, ma nemici che si combattono con ogni mezzo. E che si odiano. Un esempio, per intenderci. Ciò che da sinistra è stato detto sulla persona del candidato della Lega Roberto Vannacci e, analogamente, come da destra sia stata giudicata la candidatura con Avs della signora Ilaria Salis, vi sembra che diano conto di una serena e decoubertiana disputa tra pari che si legittimano vicendevolmente? E la quantità di odio vomitata dal padre della signora Salis all’indirizzo di Giorgia Meloni e dei ministri del suo Governo, riguardo al comportamento a suo dire menefreghista del centrodestra rispetto al “dramma” della carcerazione patito dalla figliola nelle patrie galere ungheresi, è riconducibile a un’ordinaria dialettica democratica? Tutto ciò porta a una sola realistica conclusione: le visioni identitarie, proprie della sinistra e della destra, non sono intersecabili ma radicalmente alternative tra loro. Il problema allora diventa egemonico.
Invece di perdersi alla ricerca di irrealistiche sintesi unitarie, la politica deve gettare definitivamente la maschera e dichiarare le sue intenzioni, fondandole sul dato di realtà che vede uomini (e donne) in permanente conflitto perché l’insieme – cioè la società civile destinataria dell’azione politica – progredisca e si evolva. A ben riflettere, incentivare e non annichilire con degradanti compromessi la “guerra dei mondi” progressista e conservatore-sovranista potrebbe recare benefici effetti per la guarigione della democrazia dal male endemico dell’astensionismo. Vale in Italia, ma vale anche sul piano europeo, dove agiscono le medesime logiche di contrapposizione. È un bene che si esca dalla finzione caricaturale del “Volemose bene” e che un sempre crescente numero di cittadini prenda coscienza della realtà di questo tempo storico, la cui cifra continua a essere la lotta. E non la pace, come utopia vorrebbe.
Aggiornato il 14 giugno 2024 alle ore 10:00