Gaza e la modica quantità di ammazzatine

Il Governo italiano cambia linea sulla guerra israeliana ai terroristi di Hamas. Da un appoggio incondizionato all’offensiva bellica si è passati – per via bipartisan – a una richiesta di cessate il fuoco, giustificata da una presunta mancanza di proporzionalità tra l’attacco terroristico subito per mano dei miliziani di Hamas lo scorso 7 ottobre e la reazione dello Stato ebraico.

È stato ieri l’altro il ministro degli Esteri Antonio Tajani a tirare in ballo l’argomento ipotizzando una violazione del diritto umanitario da parte dell’Idf (Israel Defense Forces). Tajani asserisce che sia convinzione comune a tutti i leader occidentali che il Governo di Tel Aviv stia esagerando con le maniere forti a Gaza. I troppi morti civili palestinesi non giustificherebbero il legittimo diritto di Israele a vendicarsi per ciò che di orribile è stato fatto a migliaia di suoi cittadini dai miliziani di Hamas nel raid del 7 ottobre. Ha ragione Tajani a pensarla così? Ha fatto bene Giorgia Meloni a cercare un’intesa con l’opposizione per dire che l’Italia non vuole la guerra nella Striscia di Gaza? Discutiamone.

Le immagini che giungono dal teatro del conflitto non sono confortanti. A nessuno fa piacere assistere alla contabilità dei morti. Vittime sì, ma non innocenti. Già, perché il punto nodale dal quale si sviluppano le valutazioni divergenti sulla crisi israelo-palestinese è riassumibile in una domanda: i palestinesi di Gaza sono altro rispetto ai miliziani di Hamas che governano la Striscia? È nostro fermo convincimento che non lo siano, che esista un’assoluta omogeneità tra combattenti e civili, tale da non consentire alcuna corretta differenziazione nei destini individuali. Lo dicono i fatti. In più di quattro mesi di guerra i civili palestinesi hanno avuto innumerevoli occasioni per dissociarsi dalla brutalità di Hamas. Non l’hanno fatto. Si lamentano e piangono a favore di telecamere per ciò che Israele sta facendo loro, ma neanche una parola su ciò che i loro sodali hanno fatto ai civili israeliani. Chiedono che le bombe li risparmino, ma non hanno emesso un fiato perché i tagliagole di Hamas rilasciassero gli ostaggi israeliani trattenuti con la forza. E nulla dicono sul diritto di Israele a vivere in pace nella terra dei loro avi, legittimando il sospetto che il retropensiero dei cosiddetti “civili” sia il medesimo dei combattenti dell’integralismo islamico: Israele deve scomparire dalla carta geografica. Che sia rimasta viva l’eco di ciò che era scritto nella Carta Nazionale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat: “Liquidazione in Palestina della presenza sionista”? Temiamo di sì.

Ora, in Occidente si fa a gara ad arrampicarsi sugli specchi di una differenziazione fittizia che non ha riscontro nel vissuto quotidiano della popolazione di Gaza. Invece, chi si accontenta della logica elementare trae opposte conclusioni. Come si direbbe dall’altra parte dell’Atlantico: se sembra un’anatra, nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, allora probabilmente è un’anatra. Quindi, se per colpire Hamas l’esercito israeliano fa vittime civili, per quanto umanamente spiacevole sia la cosa, è nel suo pieno diritto agire. C’è però un problema di proporzionalità della risposta che è stato sollevato dagli occidentali. Francamente, non capiamo. Che significa proporzionale? È forse questione quantitativa? Gliene hanno ammazzati più di mille, allora va bene se Israele ne faccia fuori una decina di migliaia a scopo di vendetta. C’è una quota sotto la quale la comunità internazionale può chiudere un occhio? E quale sarebbe: mille, cinquemila, ventimila cadaveri? E poi, nel computo vanno ricompresi i miliziani neutralizzati? Ma che ragionamento è? Se la vita umana vale, anche una sola perdita non è accettabile. Non si può stabilire la modica quantità di morti ammazzati a compensazione di altre morti violente e ingiustificate. La proporzionalità non può essere espressa in dosi consentite. D’altro canto, lo chiarisce anche il tanto evocato in queste ore diritto umanitario. Il principio fondamentale sancito dal diritto dei conflitti armati è quello secondo il quale l’azione militare in guerra è legittima fintanto che la carica e violenza della stessa è proporzionata al vantaggio militare ottenibile, mentre è vietata e perseguita ogni inutile o superflua azione di guerra (Lucia Galletta, Diritto umanitario di guerra e diritti umani, in Altalex).

Il Governo di Benjamin Netanyahu ha stabilito che non vi sarà sicurezza per Israele fino a quando si lascerà in vita l’organizzazione politico-militare Hamas. Il bombardamento di siti civili, utilizzati dai miliziani a Gaza per nascondere le armi e occultare gli accessi alla rete di cunicoli sotterranei attraverso i quali si muovono per sfuggire al nemico, è assolutamente proporzionata al vantaggio militare ottenibile. Né più né meno come lo fu il bombardamento di Dresda il 13 febbraio 1945, ad opera delle forze aeree anglo-americane, allo scopo di accelerare la caduta del regime nazista (21mila morti accertati dalle autorità tedesche ma il bilancio è rimasto provvisorio). E come fu il lancio della bomba atomica, nell’agosto del 1945, su Hiroshima e Nagasaki (circa 210mila morti e 150mila feriti) da parte degli Stati Uniti per costringere il Giappone alla resa. La verità è che Netanyahu sta facendo il lavoro sporco per tutti noi, eliminando alla radice una fonte del terrorismo anti-israeliano ma anche anti-occidentale. I miliziani di Hamas restano pur sempre gli eredi morali di quel pendaglio da forca che è stato George Habash, fondatore nel 1949 delle “Brigate del sacrificio arabo” e successivamente, nel 1967, del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) di cui fu il primo segretario generale, che a proposito della lotta allo Stato ebraico ebbe a dichiarare: “Non combattiamo perché il risultato finale sia il riconoscimento dello Stato d’Israele”. Se è da tali criminali che è popolato il pantheon dei palestinesi, noi occidentali cosa facciamo? Voltiamo le spalle al nostro alleato naturale, pretendendo che lasci l’opera incompiuta, senza peraltro riuscire a schiacciare la testa della bestia. Già, perché Hamas è un mostro spuntato fuori dalle viscere dell’integralismo islamico fomentato e foraggiato dall’Iran sciita e del panarabismo a sfondo nazionalista, il quale, benché ferito, è sempre pronto a rigenerarsi.

Comprendiamo la necessità di Palazzo Chigi e della Farnesina di badare innanzitutto all’interesse nazionale e qualcosa ci dice che nella giravolta pro-Hamas di queste ore vi sia lo zampino degli Houthi dello Yemen e di quel che stanno combinando nel Mar Rosso ai danni della nostra economia. In questo caso, però, interviene l’etica a fare la sua parte sollevando la domanda: per interesse, seppur legittimo, si può abbandonare un amico nel momento del bisogno? La risposta a tale interrogativo ci proietta su un terreno scivoloso per le troppe implicazioni che le decisioni prese in sede politica possono avere. Tuttavia, la sola cosa che sentiamo di raccomandare al presidente Giorgia Meloni è di tenere a mente che il dogma dell’infallibilità riguarda esclusivamente il magistero papale, non un capo di governo. E, con tutto il rispetto, quell’iniziativa bipartisan di ieri l’altro con la sinistra è stata un passo falso. Per favore presidente Meloni, facciamo che non si ripeta.

Aggiornato il 19 febbraio 2024 alle ore 09:21