Perché Sgarbi ha ragione e l’Antitrust ha torto

L’intelligenza e la cultura non sono lavastoviglie e neppure frigoriferi. Infatti, mentre questi oggetti più si usano e più si consumano, le qualità sopra indicate, a misura che vengono messe a frutto, si amplificano, si espandono, si approfondiscono, si raffinano, propiziando il fiorire di altra intelligenza e di altra cultura. Esse sono come l’amore, sono forme di amore: perché, come dell’amore ci dice la sensibilità di Stendhal, più vengono praticate, meglio divengono compiutamente se stesse.

Da qui credo occorra partire per cercare di comprendere i termini della controversia fra Vittorio Sgarbi, da un lato, e i pentastellati supportati da Marco Travaglio dall’altro lato: e oggi anche dall’Antitrust che con una lunga delibera di 60 pagine ne ha dichiarato l’incompatibilità con il ruolo di Sottosegretario alla Cultura.

E occorre per il semplice motivo che il Dicastero della Cultura non serve a sovraintendere alla amministrazione di denaro (come quello dell’Economia), di attività agricole (come quello delle Politiche agricole), di strade e di ponti (come quello delle Infrastrutture): serve a coordinare e a diffondere l’uso più ampio e articolato possibile di beni del tutto sui generis, perché inconsumabili come l’intelligenza e la cultura. Esiste insomma una sostanziale differenza ontologica fra i beni della vita: per gli altri Dicasteri si tratta di beni oggettivamente attingibili e disperdibili; per il Dicastero della Cultura, invece, di beni esperibili solo personalmente e per loro natura diffusivi, appunto inconsumabili.

A partire da queste premesse forse si può meglio intendere come e quanto la delibera dell’Autorità, nel dichiarare incompatibile Sgarbi con la sua funzione ministeriale, sia incorsa in un errore tanto pacchiano quanto inscusabile: inescusabile perché – ricorda Alessandro Manzoni – essendo pacchiano, poteva benissimo esser visto da quelli stessi che lo commettevano.

Ebbene, le norme vigenti vietano a chi abbia incarichi ministeriali, a pena di incompatibilità, di svolgere attività – anche se gratuite – che siano “professionali” e “connesse” con quelle afferenti al proprio incarico. Va ribadito: lo vietano a prescindere dalla circostanza che si venga retribuiti oppure no, essendo vietate anche le attività gratuitamente rese.

Si capisce subito quale sia lo scopo, la ratio legis di questo divieto: evitare che il privato possa strumentalizzare la funzione pubblica allo scopo di trarne vantaggio personale, piegandola verso i propri interessi, economici o non economici (di immagine, di notorietà, di credibilità).

Per questo motivo, chi svolga la professione di avvocato, non può proseguirla se diventi ministro o sottosegretario alla Giustizia; chi quella di ingegnere, se diventi ministro o sottosegretario alle Infrastrutture; chi quella di insegnante, se diventi ministro o sottosegretario alla Pubblica istruzione.

Infatti, tutti costoro potrebbero, in astratto, piegare il ruolo pubblico rivestito, allo scopo di trarne vantaggi personali accompagnati o no da correlati guadagni: questo rischio (il conflitto di interessi) in tali casi appare concreto e visibile, anche nella buona fede degli eventuali protagonisti.

Per esempio, un avvocato che sia anche sottosegretario alla Giustizia non potrà impedire – anche in perfetta buona fede – che gli giungano in studio persone che ambiscano ad essere da lui assistite, in quanto attratte dal suo ruolo pubblico.

Ora, nel caso di Sgarbi, a renderlo incompatibile con il ruolo pubblico ricoperto, secondo l’Antitrust, sarebbero le varie attività da lui da decenni messe in pratica e proseguite anche dopo l’incarico: presentazione di libri, inaugurazione di mostre, tavole rotonde su temi culturali, relazioni a convegni su autori di manufatti figurativi o scultorei ecc.

Per consentire a questa conclusione, è allora necessario verificare l’esistenza di tre elementi previsti dalla legge: che le attività da lui svolte siano “connesse” con quelle del suo dicastero; che esse siano svolte in modo “professionale”; che si ravvisi in concreto il rischio che egli, strumentalizzando la funzione pubblica, la pieghi a vantaggi personali.

Vediamole partitamente.

1) Che quelle abitualmente svolte da Sgarbi siano attività “connesse” al ruolo ministeriale appare del tutto evidente e incontestabile e perciò nulla quaestio.

2) Che esse siano svolte in modo “professionale” fa invece soltanto sorridere. Infatti, riesce molto difficile asserire che inaugurare una mostra di Monet, presentare un libro su Tintoretto, partecipare ad una tavola rotonda su Caravaggio o pronunciare una relazione congressuale sugli impressionisti costituisca l’esercizio di una autentica professione. Si tratta sempre e in ogni caso di attività che non saprei in altro modo definire se non come espressioni del pensiero: di quell’autentico pensiero che sempre connota l’identità di chi sappia davvero frequentare le dimore di quella bellezza che, interpretata criticamente, contribuisce in modo eminente a rendere umano il mondo. Proprio per questo, chi, come Sgarbi, si fa mediatore fra la dimensione estetica della vita – che il verso di Hölderlin ci dice figlia degli dei – e il mondo, non svolge alcuna “professione” – cosa ridicola solo a pensarsi – ma si lascia cogliere quale interprete di un’autentica “vocazione”, in quanto tale libera e non programmata o programmabile. Ora, pretendere di ridurre la “vocazione” a una “professione” (al pari dell’avvocato o dell’ingegnere), nel senso voluto dalle norme sopra indicate, non solo risulta grottesco, ma anche inutile: come inutile era la fatica di quel fanciullo che, nel celebre esempio di Sant’Agostino, voleva travasare in una buca l’acqua del mare usando una conchiglia. Né si dica che la istituzione di due società aventi scopi organizzativi degli incontri e delle iniziative culturali possa valere a trasformare in professione una vocazione: sarebbe come dire che siccome la parrocchia gode di una organizzazione di beni e perfino di un bilancio, allora il parroco, invece di esser “vocato” (che vale “chiamato”) da Dio, è divenuto un professionista del sacro: provate a dirlo e tutti vi prenderebbero in giro per la vostra comica insipienza. Qui infatti oltrepassiamo la soglia del comico, perché lo statuto ontologico di una attività umana (professione o vocazione) non dipende certo da come la si organizzi o da quante persone servano per meglio gestirla. Perciò, meglio lasciar perdere.

3) Dobbiamo infine chiederci se le attività sopra menzionate siano condotte in modo da strumentalizzare il ruolo ricoperto, piegandolo agli interessi privati di Sgarbi. Si badi: questo requisito non è espressamente menzionato dalle normi vigenti, ma ne rappresenta la stessa loro ragion d’essere, l’ubi consistam giuridico.

Ebbene, è di solare evidenza, anche per i ciechi, che Sgarbi non è divenuto ciò che oggi egli rappresenta nel panorama culturale italiano grazie “anche” al ruolo politico ricoperto, ma che, al contrario, è stato chiamato al ruolo politico di sottosegretario perché da decenni era lui, era Sgarbi.

Ciò significa che non solo Sgarbi non distorce a fini personali la pubblica funzione, ma che di fatto accade l’inverso: egli dispiega la sua vocazione personale, finendo oggettivamente con l’arricchire e potenziare la funzione ministeriale, la quale tesaurizza le sue capacità, le sue conoscenze, le sue intelligenze, la sua cultura, in grazia di un circolo virtuoso per il quale ogni iniziativa pubblica di lui – fatta perché lui e non perché sottosegretario – riverbera a vantaggio dell’esercizio pubblico del ruolo.

Ecco perché Massimo Cacciari, sere fa, lasciando di stucco Lilli Gruber e Travaglio, ha affermato di non capire di cosa Sgarbi possa essere rimproverato, se non di fare lecitamente ciò che ha sempre fatto.

Ecco per qual motivo al principio di questa nota chiarivo che intelligenza e cultura, sapientemente dispiegate, si moltiplicano e mai si riducono per usura come gli altri oggetti del mondo. Ed ecco perché probabilmente Max Weber negava che quella intellettuale potesse esser considerata in se una vera e propria professione.

Di più. Se anche Sgarbi intendesse strumentalizzare il proprio ruolo per una prava volontà, non sarebbe in grado di farlo: le sale per conferenze e le mostre si empirebbero di folle di partecipanti sempre e comunque attratti dalla sua personalità culturale, dal suo ingegno e non certo dal suo ruolo politico. Gli appassionati in questo caso non vanno affannosamente in cerca – cosa ridicola a dirsi – di un sottosegretario, ma di uno capace – per vocazione – di farsi interprete delle Muse, sia o no sottosegretario o qualunque altra cosa.

Sgarbi non potrà mai essere incompatibile col suo ruolo semplicemente perché non saprebbe come fare per diventarlo: e non è certo l’Antitrust che può farlo divenire ciò che è oggettivamente impossibile divenga. Sicché, se davvero Sgarbi si dimettesse, per lui nulla cambierebbe: continuerebbe a fare ciò che fa da sempre. Invece, il Ministero resterebbe irrimediabilmente assai più povero, tristemente ingrigito dalla mancanza di intelligenza e di cultura. Prova irrefutabile, questa, che è il Ministero, per dir così, ad “usare” Sgarbi e non il contrario. E allora?

Aggiornato il 05 febbraio 2024 alle ore 10:02